Ero li, sdraiato su una panca di paglia intrecciata, una tazza di te alla mano e un ampio cappello circolare sul viso, appisolato e silenzioso all’ombra di una sorta di baldacchino in uno dei terrazzi più tranquilli di tutto il villaggio. Ero stanco: la notte prima, passata ad allenarmi con le poche tecniche a mia disposizione per cercare di perfezionarmi mi ero davvero devastato. “L’inizio dell’accademia è ormai alle porte ormai… mi auguro di essere in grado di rispondere alle esigenze dei sensei.” Era l’unico pensiero che mi martellava, anche mentre dormivo. Nel frattempo però i caldi raggi del sole si stavano alzando come una saracinesca su sul mio corpo supino fino a quando non fui completamente illuminato. Non era sicuramente una giornata canicolare, tipica delle estati di Suna, ma decisamente meno fredda del solito, una di quelle che raramente Kiri ha la possibilità di incontrare causa il clima particolarmente rigido, e proprio per via di quell’ insolito tepore le persone uscivano dalle proprie case, passeggiavano tra le vie del villaggio, guardavano le vetrine dei negozi, chiacchieravano, i bimbi giocavano, gli uccelli canticchiavano e…mia zia sbraitava dal fondo delle scale neanche fosse cascato il mondo.
“Che diavolo vuole quella strega?”. Mi alzai con calma dalla panca, levai il cappello di paglia e poggiai la tazza sul tavolino alla mia sinistra. Infilai i piedi nei calzari, mi stiracchiai e sbadigliai, strizzai gli occhi e mi incamminai lentamente giù dalle scale fino al pianerottolo. “Dannatissime e scomode scale a chiocciola, sono un’infinita trappola mortale.”. Arrivato sul pianerottolo mi pareva di aver appena concluso una gara di triathlon, un vero parto. Ed eccola li ad aspettarmi, la tozza occhialuta, munita di ciabatte da lancio con le braccia di un fabbro e le mani infarinate, mattarello alla mano, pronta per disfarmi.
«Disgraziato! Ti ho detto mille volte di non dormire lassù! Il tempo che mi senti e scendi giù faccio tempo a morire!» Esclamò sputacchiando un poco.
«Si, si, d’accordo…» risposi arrendevolmente «Ma perché mi hai chiamato? Che devo fare?».
«Che devi fare? Santo Cielo, è la prima volta che sento questa domanda da parte tua! Lascia stare dannato nullafacente, non devi fare assolutamente nulla. C’è un tizio che ti vuole parlare...»
«E chi diavolo è?»
«Beh…io questo non lo so!»
«Dimmi almeno cosa vuole!»
«Sono sorda! Non ho capito assolutamente un bel cavolo di niente!»
«Un bel cavolo di niente? Dio mio, neanche nei cartoni animati sono così censurati!!»
«Ma chi se ne frega dei cartoni animati!? Muoviti e va a parlare con quel tipo, prova a capirci qualcosa! E se è di una qualche società elettrica dai prezzi vantaggiosi tirati giù le mutande e mostragli il culo!»
«Stai zitta un attimo!!!».
Mi sistemai i capelli, la maglietta sgualcita e dopo un bel sospiro aprii la porta. Davanti a me avevo un tipo alto circa come me, capelli lunghi neri, occhi verdi e naso stretto, viso magro e lungo. Una bocca stretta e un copri fronte sotto il mento. Il copri fronte di Kiri. Era un ninja. Un ninja dal fisico asciutto, che indossava oltre alla giacca classica dei ninja del villaggio, dei pantaloni e una maglietta mimetici, probabilmente foderati, dalle tonalità grigiastre. Strette nella mancina aveva delle scartoffie e dopo che ci fummo squadrati per qualche attimo mi porse una stretta di mano come si confà a dei veri uomini. Lo fissai in silenzio, poi gliela strinsi e debuttammo entrambi con un «Buon giorno.»
Lasciata la mano, iniziò :«Salve, sono Seimei Kozuki, chunin del villaggio. È lei il signor Saanbo Hozuki?» «Si, si, sono io!» «Bene…sono qui per portarle un avviso per quanto riguarda la sua richiesta di entrare in accademia. Mi duole informarla che i nostri corsi purtroppo sono già ad uno stato avanzato e quindi non penso sia possibile lei possa frequentare qui da noi. Difficilmente qualche insegnante le permetterebbe di prendere parte alle lezioni.» Funeste novelle sopraggiunsero così, senza preavviso ed ignaro mi inoltrai più a fondo nel discorso.
«M…ma…ma allora come devo fare?» chiesi con voce tremante, temendo la peggiore delle risposte.
«Abbiamo già provveduto ad inoltrare la sua richiesta ad alcuni dei villaggi più vicini. Konoha ci ha risposto informandoci della sua disponibilità. Visto il periodo di crisi delle accademie, Konoha ha deciso di aprire dei corsi internazionali che si terranno nell’isola di Nagi. Abbiamo inviato loro le sue generalità e si stanno arrangiando loro…le consiglio di prendere parte ad uno dei loro corsi. Ho sentito che ne inizierà uno proprio tra una settimana. Per arrivare là ci vorranno due giorni abbondanti circa. Il traghetto è il suo unico modo per approdare sull’isola.»
«Grazie per l’informazione, ma per piacere…dammi del tu...mi fai sentire troppo adulto.» risposi imbarazzato.
Il ninja rimase un attimo in silenzio fissandomi, poi, abbassando lo sguardo, proseguì.
«Molto bene. Nel caso tu avessi altri dubbi non esitare a cercarmi. Mi trovi sempre all’accademia…Comunque credo sia tutto chiaro. Ci vediamo e buona fortuna con il corso! Ah già! Questa è una lettera da parte di Akihiro Hinaji. Sarà lui la tua scorta nel viaggio. Leggila mi raccomando. Arrivederci!»
Lo ringraziai e dopo che mi consegnò la lettera si voltò e lo vidi mischiarsi alla gente del villaggio, quindi mi chiusi la porta alle spalle.
Riluttante aprii la lettera e leggendola capii che la faccenda era peggiore del previsto. “Ma quale settimana? Quello la è un fattone! Qui c’è scritto che mi devo trovare domani! Domani cazzo!” «Domani cazzo! Fanculo!» Camminai per la cucina, passai per il salotto, il bagno, la lavanderia e lo sgabuzzino. Non riuscivo a calmarmi. Ero agitato perché non sapevo chi avrei potuto incontrare. A Kiri più o meno potevo fare lo spaccone, è la mia terra, è lecito tirarsela. “Ma in un’isola estera con stranieri che non conosco…magari sono dei malintenzionati. No…non devo pensare in negativo. Pensa positivo! Pensa positivo!” iniziai a schiaffeggiarmi la faccia fino a quando non entrò mio zio preceduto dal ticchettio del suo bastone. Tutta la stanza si ammutolì. Ciò che faceva rumore si quietò, tranne il battito del mio cuore. Ancora più martellante. Ci guardammo. Mi fissò. Io lo fissai. Portò una mano all’ispida barba e sfregò per il prurito, poi picchiettando il bastone a terra iniziò.
«Era per l’accademia vero?» Esordì. Titubante, a capo chino un cenno gli feci capire, e allora proseguì «Devi andare via di casa?».
Reiterai il mio cenno. «Per quanto?» alzai lo sguardo. Lo fissai nei suoi occhi spenti dalla vecchiaia. «Una settimana…forse due. Il tempo di essere promosso.» Mi sorrise.
«Cosa ti fa pensare che verrai promosso?» come illuminato arricciai le labbra e voltando la testa gli feci segno di seguirmi nel cortile.
Ci posizionammo a quattro metri l’uno dall’altra.
«Vuoi testarmi per vedere se merito di andare?» domandai caparbiamente.
«Perché no? Infondo sgranchire le mie vecchie ossa non mi farebbe male» disse il magro vecchietto gettando a terra il bastone. Era magrissimo, davvero ossuto, basso e senza capelli con un’ispida barbetta. Indossava dei geta neri, dei pantaloni appena sotto il ginocchio e una leggerissima maglietta bianca a maniche corte. Non pareva nemmeno lontanamente un degno avversario.
“Regola numeri uno. Non sottovalutare il tuo nemico… Ma è impossibile pensare che possa fare qualcosa quel vecchio. Era un ninja tempo fa…ma non credo possa tenermi testa. È troppo anziano.”
Lo fissai alla ricerca di punti deboli, ipotetici punti deboli. Iniziai a fantasticare sulle acrobatiche sequenze da eseguire fino a quando non decisi di esordire con arroganza «Ehi zio! Sei sicuro che non ti farai troppo male?» domandai ironico.
«Dannato presuntuoso! Vieni qui che ti sculaccio!» disse ridacchiando fra sé e sé abbassando il capo.
Venimmo sfiorati da una morbida brezza. Attorno a noi qualche arbusto, un pino e ovviamente l’entrata per il soggiorno. Un piccolo laghetto e qualche masso.
Le nuvole in cielo mutavano con il passare degli attimi e dopo un ultimo sospiro aspettai il canto dei pettirossi. Il gong del nostro ring.
Mi lanciai subito contro il mio avversario e diressi un rapidissimo Tsuki destro diretto al volto, colpo che il vecchio parò con molta semplicità con la mano sinistra. Chiusi allora il braccio e tentai una gomitata allo zigomo con lo stesso braccio, colpo che venne vanificato dall'avambraccio del nemico. Non mi feci aspettare e proseguii con un colpo di palmo sinistro allo stomaco che venne parato da un incrocio delle due braccia. Visto il varco puntai un secondo Tsuki al volto, nuovamente con il braccio sinistro. Ma vano fu il mio sforzo, perché venne parato nuovamente. Il vecchio approfittò dell'urto per ritrarsi di qualche metro e mi fissò.
Ci guardammo e dopo un cenno, seguito da un sorrisino arrogante, ripartii. Spiccai un salto; un doppio calcio rovesciato al volto e una piroetta con spaccata per falciare il mio nemico nel caso in cui si fosse parato erano le mosse che avevo intenzione di portare a compimento. Il vecchio tuttavia parò la prima serie con un braccio solo e quando mi vide posare la mano a terra, pronto per roteare, si abbassò tempestivamente e con una rapida spazzata mi mieté il braccio facendomi cadere rovinosamente a terra. Senza farsi attendere mi afferrò per la maglia e mi scagliò sei o sette metri sulla destra, dove c’era il laghetto d’acqua.
Volai senza poter far nulla e con un vigoroso tonfo caddi in acqua.
Mi precipitai fuori in un attimo, ma sul prato, del vecchio non c’era più traccia.
«Sono qui!» sentii pronunciare dietro di me. Inorridito mi voltai e vidi il vecchio sul pelo dell’acqua, in piedi che mi fissava con le braccia conserte, sorridendo.
Picchiai il pugno sulla terra e ringhiai «Merda! Ora ti distruggo!».
Spiccai un altro salto verso il mio nemico e roteando caricai un calcio discendente al livello della spalla avversaria. Lo zio alzò il braccio sinistro verso l’alto e parò il colpo sprofondando di mezzo dito in acqua. Il colpo, a vederlo da fuori era tutto un programma, davvero una figata coreografica, ma nulla che un nemico del calibro di mio zio potesse temere. Sorridendo, infatti, mi afferrò il piede e roteando tentò di lanciarmi di nuovo via. Ma con la gamba sinistra riuscii ad afferrarmi al corpo del vecchio ed interruppi la sua piroetta.
Lo fissai sorridendo, e confidando sul suo equilibrio scaricai una combinazione di pugni al livello dello sterno, colpi che però non sortirono molto effetto nonostante fossero giunti a destinazione.
“Come fa a restare in piedi dopo quella sequenza e con me attaccato? Sono più pesante di lui? Come fa?” Con la mano destra afferrò il colletto della mia maglia e mi sollevò mentre con la sinistra mi sferrò un potentissimo colpo di palmo sullo stomaco facendomi volare per una decina di metri soffocando i miei pensieri. Non riuscii più a rialzarmi.
Mi svegliai la sera stessa ancora indolenzito con mio zio ai piedi del letto appisolato su una sedia,
Calzate le pantofole, scesi le scale e giunsi in cucina dove, seduta a pelare delle patate, la zia non mi sentì arrivare. Le poggiai quindi una mano sulla spalla e il suo sguardo improvvisamente rasserenato mi fece intuire la sua gioia nel vedermi in piedi. Guardai l’orologio che segnava le sette circa. Dai fornelli saliva un appetitoso profumo. Lo stufato si stava preparando per bene. Un gustosissimo stufato dai mille profumi, speziato al punto giusto con contorno di patate. Avevo già l’acquolina in bocca. Per pochi istanti mi immersi in pensieri a sfondo culinario, ma riacquistata la coscienza decisi di andare a svegliare il vegliardo. “Chissà da quanto cavolo dorme…”
Salii di nuovo le scale e lo vidi sul pianerottolo, lì ad aspettarmi.
«Come stai?» chiese.
«Non c’è male.» risposi sorridendo.
«Senti…» continuò titubante «...spero tu abbia capito il perché del mio colpo.»
«Perché mi sono distratto no?» chiesi io con curiosità.
«Si. Esatto. Devi capire che nel mondo vero il tuo nemico non starà li ad aspettarti. Se ne avrà la possibilità ti colpirà. Quindi, per piacere, presta attenzione quando sarai via. Impara dagli altri e colma queste tue lacune.»
Mi incupii e con sguardo basso «Zio, non ti preoccupare… Andrà tutto bene.»
Gli occhi pallidi mi fissarono e senza proferire verbo si voltò incamminandosi verso il bagno, ma continuai a fissarlo. Poggiò la mano sulla porta scorrevole e senza girarsi parlò.
«Saanbo… – mi chiamò – …perché vuoi diventare un ninja?»
La domanda mi lasciò spiazzato, poi mi incupii ancor di più e con voce tetra risposi.
«Lo sai il perché. – Esitai alcuni secondi.– E non c’è nulla che potrebbe cambiare il mio scopo.» Si voltò di scatto e ringhiò «Lo vuoi capire che la vendetta non ti porterà a nulla! Devi diventare un ninja non per te stesso, ma per gli altri! – riprese fiato – Non puoi farti accecare dall’odio! Tuo fratello era un folle, ma tu non puoi seguire le sue orme! Se seguirai la vendetta finirai per diventare come lui. Te lo posso assicurare! Se ti lasci guidare da ciò che è male non ne verrai più fuori. Sarai da buttare, sarai marcio, un corrotto!»
Le sue parole mi fecero ribollire il sangue. Rinunciare al mio sogno. Al mio sogno insanguinato? Mai!
“Dannato… come ti permetti di gettare fango sul mio sogno… sulla mia ragione di vita?” Alzai di scatto il capo picchiando un pugno sul muro di legno.
«Taci vecchio! – ringhiai facendo calare un silenzio tombale, poi proseguii a denti stretti – Io diventerò un ninja e ucciderò quel bastardo! Lui morirà per mano mia, diventerò così potente che non potrà nulla contro di me. Lo braccherò e ti porterò la sua testa!» L’uomo nel frattempo mi si era avvicinato e quando finii mi sferrò un potente schiaffo in pieno volto. «Se il tuo scopo è uccidere qualcuno fai pure, ma non azzardarti ad usarlo come pretesto per diventare un ninja!»
«Il mio non è un pretesto! Questa è la mia unica via per riuscirci!»
«Non ti manderò alla morte. Tuo fratello ha poteri che tu nemmeno immagini!»
«Non mi interessa che sorta di capacità abbia, quando sarò un ninja mi allenerò così tanto da diventare il migliore spadaccino della regione, lo cercherò e lo ucciderò, mi hai capito?»
«Al diavolo voi giovani! Vuoi capire che finiresti ammazzato se ti mettessi contro di lui? Quella volta gli mozzasti il braccio solo per pura fortuna. Se non fossi intervenuto io avrebbe ucciso anche te oltre al povero Ichigo!»
«Non ti sopporto più vecchio! Le tue cazzate mi stanno dando alla testa! Io diventerò un ninja, che tu lo voglia o no e ucciderò tuo nipote. Lui non è più mio fratello da molti anni…»
«Essere un ninja è molto di più che vendicarsi per un torto subìto, dannato stolto! Se vuoi gettare via la tua vita inseguendo un fantasma per completare il tuo sogno insanguinato fai pure, ma non diventerai altro che un miserabile. Chi ha come solo scopo nella vita uccidere qualcuno non è che un fallito, un miserabile fallito! Ricorda le mie parole stolto!»
Lo guardai in cagnesco, digrignai i denti e scuotendo la testa gli camminai oltre, dirigendomi verso la terrazza.
Cenammo, ma nessuno proferì parola. Consumammo un pasto nella più tetra silenziosità e una volta che terminai il mio pasto m’alzai, poggiai la ciotola sul lavabo e senza proferire parola mi incamminai su per le scale fin su sul terrazzo. Levai gli occhi al cielo e mi poggiai sulla ringhiera spendendo il mio tempo a guardare le stelle. Il villaggio di sera era parecchio silenzioso e nonostante fossero appena le dieci le luci delle case si potevano contare sulle punte delle dita.
Mi voltai e stendendomi sulla panca afferrai il cappello di paglia che posai davanti agli occhi. Ripensai per ore alle parole di mio zio Heishi. Il mio odio mi avrebbe consumato probabilmente, ma quello era il mio unico scopo. Uccidere Niichi era la priorità e per farlo mi sarebbe bastato diventare più forte, ma per diventare più forte dovevo diventare un ninja, e per diventare un ninja dovevo partire alla volta dell’isola di Nagi. Pensieroso tentai di addormentarmi, ma la conversazione di quel pomeriggio mi tormentava. La parola “fallito” martellava ancora i miei timpani. Non riuscii mai a dimenticare quella lite.
Lame. Lame e coltelli mi sferzavano la mente. Ricordi. Alcuni confusi, altri più chiari e nitidi. Sangue. Tanto sangue. Sangue ovunque. Per terra, sulle pareti, nelle finestre, nelle mani, nei vestiti, nel pane, nel vino, nell’uva, nell’acqua, dai rubinetti, sugli specchi. Ovunque. Ovunque.
Frasi confuse, sconnesse pronunciate da voci flebili. Quasi impercettibili. Risa, tante risa. Fastidiose. Fastidiosissime risa che provenivano da ogni dove. Ed ecco una sagoma. Una sagoma confusa dalla nebbia. Sempre più nitida e chiara. Ero io. Con le ginocchia al petto e le braccia strette attorno tremavo e piangevo. Piangevo come un lattante. Proprio come quella volta. Già, come quella volta. Poi un volto iniziò a rotearmi attorno, confuso, ma più veloce andava, più si rendeva chiaro e comprensibile. Naso lungo e stretto, capelli neri, occhi felini, sguardo raggelante. Era lui. Il mio obiettivo, la mia nemesi. Provai rabbia, un’infinita rabbia. E mentre le sue risa aumentavano io urlavo e più urlavo più erano forti le risa come in un circolo vizioso. E proprio mentre la sua mandibola spalancata stava per avvolgermi nella sua morsa dentata, mi svegliai di soprassalto, urlando. Ero madido di sudore. La fronte luccicava riflettendo i raggi della luna. Le pupille tremavano, le mani tremavano, le ginocchia, le gambe. Tremavo completamente. Come una foglia. Occhi spalancati. Occhi terrorizzati. Di chi ha visto la morte. La propria. Il peggior incubo della mia vita. Cose che ti lasciano un segno indelebile. Cose da non dire. Paura. Paura. Tanta paura.
Varcai la porta di casa verso le cinque e mezza quella mattina. L’aria era particolarmente fredda nonostante sfrecciasse sul paese più gelido del continente. Il sole aveva appena iniziato la sua quotidiana ascesa al cielo ad oriente, mentre la luna, agli antipodi, si stava preparando alla sua rapida calata. Incappucciato a dovere mi avviai verso le porte del villaggio dove ad attendermi c’era Akihiro Hinaji, il chunin che mi avrebbe scortato per il viaggio. Cominciai subito a farmi strani pensieri sull’aspetto di quel ninja. “Magari ha la barba, magari è grosso, magari è magro, magari è alto, magari è basso, ecc..” ed altre cagate simili. Quello che mi spaventava di più però era il fantasticare sulla natura del mio esame. Che mi avrebbero fatto fare? Nuotare in un lago gelato? Combattere sui carboni ardenti? Arrampicarmi sugli alberi con i piedi? Diavolerie. Diavolerie che però mi tormentavano costantemente. Avevo davvero il terrore dell’ignoto.
E mentre la mia mente spaziava alla ricerca di soluzioni impossibili, giunsi improvvisamente alla porta del villaggio. Ed eccolo là Akihiro.
Fiero del suo metro ottanta abbondante se ne stava là, poggiato all’entrata del portone sud.
“Un attimo. Come faccio a sapere che è Akihiro?”
Mi guardai attorno, cercando qualcun altro. Ma nessuno nei paraggi.
“Si…dev’essere lui” Accelerai il passo e in pochi attimi giunsi di fronte all’uomo e visto il suo copri fronte non ebbi più dubbi, così, a capo chino, fingendo un po’ di fiatone, mi scusai per il leggero ritardo. Senza proferire verbo l’uomo si scostò e con un rapido cenno del capo mi fece intuire di seguirlo.
Il timore di aver fatto arrabbiare il mio senpai era molta e ebbi la conferma del suo disappunto quando iniziò a scattare per la foresta. Non riuscivo a tenere il suo passo, era troppo veloce e nonostante provassi a raggiungerlo, non ci riuscivo. Digrignai i denti più di una volta a capo chino nel tentativo di eguagliare la sua rapidità, ma non c’era verso. Era un fulmine. Un fulmine biondo. Dagli occhi azzurri, quasi gelidi. Occhi di chi non teme, ma è temuto, di chi non chiede, ma è richiesto. Un tipo apposto, forse. Scontroso senza ombra di dubbio, e…senza voler esagerare…un po’ un figlio di puttana. Con tutto il rispetto del caso ovviamente. Un figlio di puttana, ma di una puttana rispettata insomma. Che gli avessi fatto, proprio non lo capivo, più volte cercai di chiedergli con cortesia di rallentare il passo, ma nulla. Gli entravano da una parte e gli uscivano dall’altra le mie richieste. Richieste di chi non ne può più, di chi ha i coglioni pieni di correre, di chi si è proprio smaronato al punto di mandare in vacca tutto. Certo, lo avrei fatto. Mi sarei girato urlandogli contro qualcosa a proposito della madre, del padre, dell’altro padre e di tutti gli altri che si erano passati la seducente meretrice, ma non potevo. Per una questione di rispetto? Anche. Per riportare a casa la pelle? Si, forse, ma il motivo fondamentale che non mi spinse a mollare tutto fu il mio sogno. Il mio odio. L’odio. Il motore immobile di tutto l’universo. Tutto si muove per odio. Odio genera odio, odio che genera altro odio che ne genera altro ancora in una spirale infinita. E nonostante cercassi un modo per sbarazzarmi di quello stronzo davanti a me, madido di sudore continuavo a correre. Corsi per tanto, tantissimo tempo. Non ci fermammo mai, nemmeno un attimo. Attraversammo le terre paludose. Gli acquitrini tempestati da insetti erano il posto che mi piaceva di meno. Acqua rafferma, puzzolente, verde, con il muschio, insetti di ogni genere e forma, ma soprattutto, di ogni dimensione. E così, per una cosa come sei ore non vidi altro che schifosi rospi ed altre bestiacce. Che merda!
Lentamente però, verso le prime ore del pomeriggio iniziammo a vedere qualche mutamento nell’ambiente circostante. Si potevano intravedere i primi alberi. Alberi degni di questo nome, non come quegli striminziti ramoscelli paludosi. E con lo scorgere dei sempre verdi potemmo sentire in lontananza lo scorrere dell’acqua. Acqua rigogliosa che saltava e schizzava seguendo la serpeggiante traiettoria donatale da madre natura, trasparente e fresca, proprio come piace a me.
Assicuratomi che il mio tutore non badasse a me mi fermai per pochi attimi e favorii dell’incredibile sollievo che mi donò il sorseggiare quella limpida bevanda. L’ambiente attorno a me era incredibilmente verdeggiante. Pini e abeti a perdita d’occhio in qualsiasi direzione guardassi. L’erba ricoperta da un sottile strato di brina si piegava al passaggio del vento, vento che piccoli uccelli dal candido piumaggio sfruttavano per volteggiare sopra le nostre teste.
Verso sera, al calare del sole giungemmo ad un piccolo molo. La nebbia era già calata e il nostro passo accompagnato dal gracidio delle rane e dai frinii dei grilli rallentava sempre più. Un’atmosfera davvero inquietante. Ed eccolo la. Il nostro nocchiere. Un uomo brizzolato verso la sessantina, dagli occhi piccoli e dallo sguardo corrucciato. «Siete voi i ninja di Kiri diretti a Nagi?» gridò nel vederci arrivare.
«Si! Siamo noi!» gridai io d’istinto. Akihiro nemmeno si voltò. Che ragazzo freddo e distaccato, pensai.
Salimmo in barca, una di quelle a motore lunga circa sei metri da poppa a prua e larga tre, forse quattro. Senza chiedere il permesso o chissà altro, avendo intuito oramai il temperamento del mio “compagno”, se tale può essere definito, mi coricai coprendomi con una coperta che trovai nella stiva e usando come cuscino la mia sacca porta oggetti, pregando iddio che non mi si conficcasse un kunai in testa nel bel mezzo del sonno. Dormii, per circa quattro o cinque ore, poi fui svegliato da Akihiro. Mi guardò con i suoi occhi gelidi e mi sentii morire.
Con un cenno del capo mi impartì l'ordine di seguirlo e io non potei fare a meno che ubbidire. Di tutta fretta scesi dal letto, lasciando la mia attrezzatura sopra al materasso sotto coperta. Mi fermò e con un un'altro cenno indicò la sacca, e io, ubbidiente, mi voltai, recuperai il mio equipaggiamento e lo seguii.
Eravamo oramai arrivati su un’isola. Una bella isola verdeggiante. O meglio, mi pareva fosse verdeggiante. Quella notte la luna non era molto luminosa e i colori si distinguevano a fatica.
Non approdammo nemmeno. Mi guardò, poi indicò il mare e un’isola più ad ovest.
Quella era l'isola di Nagi, non quella alle mie spalle. Impallidii. Non ci potevo credere. La mia terra promessa era a circa venti miglia verso occidente.
«Ma come faccio ad arrivare la? Nuotando?» domandai incredulo.
Facendomi notare di non aver altre opzioni le mie gambe iniziarono a tremare. Dovevo davvero nuotare per una trentina di chilometri in mezzo al mare. E avrei dovuto raggiungere la scogliera con la casupola entro le otto della mattina successiva. Cose da folli. “Merda” fissai l’acqua per alcuni lunghissimi attimi, poi, preso coraggio, mi tuffai in mare. Era congelato. Una persona normale sarebbe morta assiderata in poco tempo. Ma non un’abitante del villaggio della nebbia. Noi siamo abituati alle temperature rigide. Tentai qualche bracciata, ma il giubbetto che indossavo non faceva altro che impacciarmi nei movimenti, quindi me lo levai e lo lasciai al suo destino tra le onde dell’oceano.
E così iniziai, tra un’imprecazione e l’altra la mia odissea fino all’isola. Avevo davvero poco tempo. Non potevo prendermi pause perché ad una media di tre, quattro chilometri all’ora c’avrei messo circa dieci ore. Un’eternità. Dovevo perciò sbrigarmi e iniziare a sbracciare con vigore.
Sentivo l’acqua nei polmoni, la fatica che mi consumava, i ricordi si annebbiavano, la concentrazione si spegneva, i muscoli si irrigidivano e più di una volta rischiai di colare a picco. Provai moltissimo dolore in più di un’occasione e mentre gli stenti mi stavano per far collassare, il gelo mi mozzava il respiro, già messo a dura prova. “Come lo odio quel figlio di un cane. Se mai diventerò più importante di lui gli farò staccare le palle da dei corvi. Maledetto bastardo figlio di puttana. Faccia di merda, testa di cazzo, muso da cane, feccia umana, schifo di uomo, vergogna dei ninja.” Non pensavo ad altro che ad imprecazioni. Tante, tantissime imprecazioni. Imprecazioni di qua, imprecazioni di la, fatica, soffocamento, dolore. Un putpurrì che in quei lunghi momenti costituivano il mio unico mondo. La mia unica visione delle cose. Una visione assai fastidiosa, oserei dire.
Le ore passavano, e più passavano e più io ero distrutto. Non ne potevo più. Dopo un giorno intero di corsa sfrenata senza sosta, ecco un’altra epica impresa per me, il vostro eroe. Il tutto separato da niente meno che una buona pausa, resa insignificante se paragonata alla mole delle due gesta che le ruotavano attorno.
Il sole era già sorto, le stelle in cielo oramai spente e l’isola davanti ai miei occhi. Circa due o trecento metri ancora. Che ore fossero non lo sapevo, ma ero così incazzato che non vedevo l’ora di uscire dall’acqua e spiattellare qualche bel pugno in faccia a qualcuno. Di essermi cacciato in una brutta faccenda l’avevo già capito, ma la situazione si era fatta più incresciosa della più incresciosa delle mie idee. Davvero qualcosa di fuori dal mondo. Da devastati di testa. Da forati. Quel tipo, quell’Hinaji, era davvero un distrutto. Un folle mandato da chissà quale pazzo a fare il lavoro sporco. “Quello mi vuole morto…lo so io come sono fatti quelli come lui…ma basta… basta pensare a quel figlio di puttanaccia di merda. Ora devo solo arrivare. Manca poco, poco, pochissimo. Ancora tre, o quattro bracciate” Effettivamente mancavano solo una manciata di metri, ma mai nella vita provai un senso d’impotenza tale. Mi venne da mollare tutto, a due passi dalla fine. Che fosse già parte del mio esame? Mah, chi lo sa. Fatto sta che io i coglioni li avevo già belli che pieni. Pieni e pure bagnati.
Finalmente, però, con un’ultima bracciata raggiunsi la riva. Una costa frastagliata, senza spiaggia o altro. Mi avvinghiai sulla piantina alla mia destra e facendo un ultimo sforzo mi sollevai ed uscii dall’acqua. Pareva di stare in paradiso. La soffice erba verde mi accarezza il capo, e così, soavemente supino mi concedetti qualche attimo di pace. Pace interrotta da un gelido vento che mi rizzo tutti i peli. Rialzatomi, iniziai a cercare un modo per raggiungere la cascina che avevo veduto dal mare. Trovai una scala naturale di sassi e macigni vari che mi permisero in pochi minuti di giungere sulla cima, e una volta la mi trovai di fronte allo spettacolo della natura incontaminata. Boschi a perdita d’occhio, uccelli che fieri sfrecciavano in cielo cantando, alberi che con il loro fruscio riempivano di quiete quella tranquilla atmosfera. Un atmosfera di vera pace, rotta però dal meccanico schiocco dei miei denti. Il freddo mi stava praticamente assiderando. Sentivo che sarei morto da un momento all’altro, per la gioia di Hinaji. E mentre facevo considerazioni di carattere ambientalista girovagavo alla ricerca della casupola. Alla mia sinistra, oltre una boscaglia, ecco apparire un capanno. Non vedevo molto bene, le immagini erano confuse, ad ogni modo le cose erano tutte al loro posto. Casolare alle otto di mattina nell’isola di Nagi. Che ore fossero lo ignoravo, ma circa doveva trattarsi dell’ora dell’incontro, e in ogni caso quello era proprio il mio punto di ritrovo. “Ma…chi diavolo sono quelli?” in lontananza due sagome, delle quali una a terra. “No! Un momento…ma sono in tre! E quello sembra un cane. Ma no…impossibile…è troppo grande, sarà un lupo!” e mentre trascinavo la mia carcassa fradicia mi avvicinavo sempre più al punto d’incontro. Tenni il mio capo muschiato verso il basso, un po’ per vergogna e un po’ per non inciampare, fino a quando il gruppetto non mi fu a pochi metri di distanza. Mi fermai e guardai i tizi che avevo davanti. Li osservai sommariamente, un po’ per timore, ma direi soprattutto per la stanchezza. Il primo alla mia destra, quello supino per intenderci, era intento a fissare le nuvole; era un biondone, occhi azzurri e sguardo da duro, molto somigliante al quello stronzo di Akihiro, ma a differenza sua non suscitò in me quello stesso timore reverenziale, quasi più somigliante, in realtà, al terrore puro. Il secondo invece pareva essere uno che sapesse il fatto suo. Occhio vispo, capigliatura sbarazzina e copri fronte della foglia. Un ninja. Eccolo qua il mio maestro, pensai. Tuttavia c’era qualcosa di strano in lui. Che fossero i due segni tribali di color cremisi sulle sue gote? Bah chi lo sa. Fatto sta che mi fece venire parecchia strizza. Come il cane affianco a lui "Quindi quella roba...è un cane, eh?". Mastodontico per davvero, dal pelo candido, e a prima vista, anche morbido. E fu così che nell’imbarazzo più totale presi l’iniziativa e con voce stridente iniziai con un bel «Ciao…».
| ~Status: Grado: Studente Energia: Bianca Chakra: 50/50 Condizione Mentale: Impaziente, insicuro Condizione Fisica: Provato dalle fatiche Consumi:- Recuperi:- Slot 0/1:- Techiche 0/1:- Bonus:- Malus:-
~Armi ed Equipaggiamento: |