| ~Sangue~ |
| | Parlato da AltriParlatoPensatoVoci nella testa
~Un sogno pieno di incubi
»Sunagakure. Ore 12:24. Tre giorni prima dell’Accademia Suna. Villaggio di sole, sabbia e tanto, tanto caldo. Eppure la gentil donzella che camminava inquieta avanti ed indietro, su e giù, sembrava quasi non patirlo. Lo scherzoso fato le aveva fatto mettere in testa di diventare una Kunoichi rispettata ed importante. Per tal motivo, fiera del nome che portava e delle sue qualità a dir poco dilettantistiche, aveva inviato una lettera, che pareva superba e prosopopeica già dalla grafia, all’accademia Ninja del Sunagakure. Ed ora, ingenuamente, aspettava la risposta. Lei era fatta così, buona buonissima, fetente fetentissima, allegra allegrissima. Tutto stava nelle mani di chi osava interloquire con ella, già a causa di questo, antipatico. Le era stato insegnato il rispetto, l’obbiettività, la correttezza. Ma l’aspirante Kunoichi era ben consapevole, almeno in cuor suo, che tali utopie non esistevano realmente nel mondo. Si trattava di parole vane, pronunciate in un contesto spesso deprimente ed ipocrita. Quante volte aveva sentito persone pretendere rispetto e correttezza per sé, quando loro erano le prime che, come avvoltoi che si avventano su una preda, aggredivano moralmente i ceteri? Quante volte aveva visto guerrieri noti per la loro potenza, predicare correttezza e vincere slealmente? Questo, solo questo rappresentava realmente la vita in un mondo in cui tutto ciò che è positivo è altresì utopico, in cui tutto ciò in cui si crede, è destinato ad essere calpestato, in cui, se possiedi buoni propositi, vieni tacciato d’ipocrisia. Eppure, lei non si identificava in questa realtà, non poteva, o forse, semplicemente, per una pura manifestazione di egoismo, non voleva. Tormentata da mille e più dubbi, tutti atroci e esistenziali, al punto che i più grandi filosofi non erano riusciti a trovarvi risposta, passava le giornate rimuginando e ruminando altrettante possibilmente impossibili risposte. In fondo, perché complicarsi la giornata? Meglio prendere la vita per com’è, piuttosto che protestare nulla a nessuno. Anche condurre un’esistenza noiosa e monotona era comunque dignitoso, comunque sempre meglio di morire. Compiere ogni giorno gli stessi gesti, metterci sempre lo stesso tempo per fare ogni cosa, soppesare le solite parole, anche quando sono state dette mille migliaia di volte, percorrere sempre la stessa distanza ad ogni passo… l’insieme di queste cose non poteva far altro che rendere la vita più semplice. Per questo, forse, aveva deciso di iscriversi all’accademia, inutile mascherarsi dietro la debole scusa del nome o dell’ancor più debole scusa del diventare più forte. Nome, forza, concetti, idealizzazioni che portavano a nulla più che alla creazione di una personale immagine, che, in quanto tale, non rappresentava affatto la cruda realtà. Ci vuole più coraggio ad affrontare la vita, a farsi un esame di coscienza che a combattere, a guardare in faccia la morte. Perché? Perché? Perché tutte le cose apparentemente facili, dovevano essere così fottutamente difficili? Sconsolata, la donna guardò fuori dalla finestra. Interessante come si potessero notare cose che difficilmente si vedevano in altre situazioni. Gli infissi in truciolato si stavano staccando, come rosicchiati da una colonia di termiti. Il vetro, opaco e polveroso, lasciava passare ben poca luce, eppure permetteva di vedere all’esterno, come se i principi fisici non valessero per esso. Il maniglione arrugginito e ossidato era ben fermo al suo posto e intenzionato a restare in quella situazione, come animato di vita propria. Dalla limitata visuale posseduta da un essere umano, che di certo non era in grado di cogliere ciò che era, magari, colta da un insetto, poteva osservare che numerosi buchi penetravano nel legno umidiccio e semi-marcio. Doveva di certo far ristrutturare la casa, costruita e sudata pezzo per pezzo dall’unica figura esistente per cui provasse quella strana sensazione denominata Amore. Si trattava del padre, del suo faro nella notte tempestosa che lei tentava, invano, di vedere come vita. Questo perché essa non è giusta ed una cosa non corretta deve essere cancellata e rifatta meglio. Era, dunque, forse possibile, togliere e ridare il soffio Divino a chicchessia, migliorando la sua vana esistenza? Eccola, tornava, instancabilmente, perpetuamente, la domanda esistenziale che, un’ora sì ed un’ora pure, tendeva a venirle in mente, in molteplici forme, anche se era possibile ridurla a due parole e due segni di interpunzione: Vita, Morte. Ossimori così vicini, contrapposti e gemelli, come gli omonimi numeri primi, l’uno a breve distanza dall’altro, ma troppo distanti per toccarsi. Inconsapevolmente, mosse le gambe snelle e sode, una dopo l’altra, dirigendosi verso uno straccio asciutto, posto su un mobile dell’appartamento. Lo afferrò, rinchiudendolo fra le sue spire, sentendo la ruvidità al tatto, le fessure che dovevano catturare gli acari e la polvere. Era costituito da tre strisce di colori, due uguali uguali identiche, di color “Griso”, interrotte da una coloratissima zona rosa. Lo portò con sé, come si porta un cane a passeggio, lo passò sul polveroso vetro, che pian piano era obbligato a diventar splendente, carino e coccoloso. Tentò di scrutare, ora che poteva, oltre il candore del vetro, ma ciò che vide, la spinse a barricare gli occhi dietro le palpebre e le folte ciglia. Il suo viso era stato riflesso e questo non andava bene. Si era ripromessa di non farsi distrarre dal proprio aspetto, dai propri fluidi e lisci capelli rossastri, dal suo seducente corpo, dalle sue labbra carnose, dalle folte sopracciglia, dal viso ormai semi-adulto, che sembrava urlarle “amami, curami come è consono e giusto fare”. Ecco, i suoi pensieri erano tornate su di lei, ma doveva mantenere la promessa fatta alla sua prima Sensei, doveva diventare una ninja. Assorta nei suoi pensieri, nella sua diagnostica, a malapena notò lo Shinobi Postino, che le aveva recapitato una missiva dell’accademia. Era, invero, giunto il momento. L’aprì con gesti solenni, la lesse e si rese conto di aver appena eseguito il suo primo esame di coscienza. Era passata per l’inferno, aveva fatto un giro turistico in esso ed era tornata, completamente bruciata, ma non distrutta. Ed ora, poteva sfogare i suoi sentimenti, poteva abbandonare la maschera che portava sul volto. Poteva piangere. E questo fece, pianse, pianse, pianse ancora ed ancora. Strana risposta a ciò che era giunto inaspettato ed insperato nella sua buia vita.
CITAZIONE Giovane di Sunagukure, La sua richiesta di essere stato ammesso all'accademia è stata accettata. Dovrà recarsi fra 3 giorni in accademia nell'aula numero 7 alle ore 8:00. Il vostro sensei sarà Hiroshi Senju, Genin del Sunagakure. A presto
»Sunagakure. Ore 5:30. Primo giorno di Accademia.
Tra il primo pensiero di un’impresa terribile, e l’esecuzione di essa, l’intervallo è un sogno pieno di fantasmi e paure. L’aspirante Kunoichi si svegliò all’improvviso da un vortice di incubi neri, incomprensibili e, proprio per questo, terribili. Le gocce di sudore le imperlavano la fronte, dandole un’immagine quasi spaventosa e virile. Curioso l’intelletto umano, così variabile, così imprevedibile. Da quando aveva ricevuto la lettere aveva fatto solo due cose: piangere e disperarsi. Ciò che aveva ardentemente voluto, ora era tra le sue mani, ma come un’anguilla viva, sembrava dover scivolare dalle sue mani, allontanarsi irrimediabilmente. Proprio per questo era triste. Non l’emozione del primo giorno di scuola, non la consapevolezza della pericolosità della carriera che voleva percorrere, ma l’idea che ogni cosa desiderasse, se ne andasse via, ad un passo dalla cattura, la distruggeva. Svogliatamente si avviò verso la doccia. Aprì l’acqua, che iniziò a ricoprirle il volto, il seno, il corpo che pareva esser privo di vita. Il sudore e il liquido, che usciva dallo strano marchingegno che veniva usato ogni giorno per lavarsi, prima l’uno, poi l’altro, poi insieme, si fondevano con le salate lacrime. Così piacevole era esser lì sotto, senza preoccupazioni, senza alcun pensiero sgradevole. Finalmente si sentiva libera. La mente era vuota e viaggiava, immaginava, sognava. E non era un sogno pieno di fantasmi e paure, ma un "quod" (un qualcosa) di indefinito, sconosciuto, che ti dava la possibilità di crogiolarti, come una lucertola sotto la luce. Le ore passavano, le scivolavano addosso, come la sostanza trasparente ed allo stato semi-liquido, semi-gassoso. Si fecero ben presto le sei, una sveglia, in lontananza, suonò. Era un rumore forte, acuto, irritante. Sentiva la testa esploderle, le domande esistenziali tornare a galla. Aveva senza dubbio alcuno, necessita di uno psicologo. Si mise il viso tra le mani, scuotendolo violentemente, come per riprendersi da un duro colpo. Perchè siamo qui? Perchè esistiamo? Perchè l'uomo è uomo e non pinguino? Come mai ogni persona si sviluppa in modo diversi? E in tal modo continuavano, insistenti, persistenti, perpetue. Uscì sconsolata dalla doccia, il passo insicuro, debole. Solo con l'asciugamano addosso, si presentò al padre, per dargli l'addio. Così critico era dire "ciao, ci potremmo non rivedere più", a qualcuno. Eppure, tutto poteva accadere in un attimo. Un sorriso, una parola interpretata male, un gesto di stizza in un momento di ira feroce. Questa cose e molte altre potevano portare alla morte di una o più persone. In piena consapevolezza di ciò, lasciò l'unico genitore che aveva, affranto eppure così allegro. Quando varcò la porta, si accorse di due cose: il villaggio era sveglio. C'era infatti quel brulichio, quel ronzio che si sente in un paesello, sulla sera o sul sorger del sol, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal mercato, portandosi al collo i bambini e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della mattina. Gli uomini venivan con le vanghe e con le zappe sulle spalle [cit. necessaria]. Il secondo ed assai più importante fatto, era che, al solito, stava arrivando in ritardo. Corse. Corse a perdifiato, sputando sudore, sangue e anima. Forse anche il latte con cui aveva fatto colazione, il giorno prima, alle 2:30 del mattino. Amava distinguersi dalla massa, nutrendosi ad orari differenti. Così si giustificava, non volendo dargliela vinta a nessuno. La gente intorno a lei, la fissava torva, incattivita. Perchè il mondo la odiava? Perchè nessuno sembrava poter scrutare nel suo animo? Forse era meglio così, perchè ne sarebbe rimasto scioccato, oppure intontito. Improvvisamente l'imponente edificio dell'accademia apparve davanti a lei. Come lo vide, in ella comparve un senso di impotenza, di riverenza, ma anche un'enorme paura. Sentiva gli occhi farsi lucidi, le lacrime pronte a sgorgare, a fiotti. Ma ciò non doveva accadere. Si fece coraggio, entrò e misurò i passi, al solo fine di calmarsi. Lentamente, ma, proprio come il tempo, inesorabilmente, avanzò. Prima un piede, poi l'altro, prima un piede, poi l'altro e così via, fino all'arrivo nell'aula numero 7, come dal foglio illustrato. Respirò, respirò a fondo, respirò molto a fondo, per poi entrare. Non c'era nessuno shinobi di altro livello, solo uno studente, a cui rivolse appena uno sguardo. Non perchè non lo voleva conoscere, ma semplicemente perchè era fatta così. Quei legami erano così fragili, eppure la loro rottura causava la morte interiore. Ecco un'altra causa di morte. Si guardò intorno. L'aula era su più livelli, banchi uno sotto all'altro, a mò di scalinata. Sulle lucide e lisce superfici erano presenti dei fogli, che decise di non degnare nemmeno di un pensiero, fino all'arrivo del sensei. Era curiosa, allegra, spaventata, triste, timorosa. Una serie infinita di aggettivi, participi passati, presenti ed anche futuri, poteva essere associata al suo stato d'animo. Ma quello che più la definiva, era uno solo. Questa era lei, un nome, una definizione, una certezza: Kazuko Kawaku. Edited by ~Sangue~ - 3/12/2008, 23:19
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