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| | | Giudizio Divino: Redenzione degli Impuri Peccatori.
Sferzante fu il radiante raggio energetico che investì in un baleno le povere palpebre dietro cui gli occhi del Celestiale scioperavano. Qualcuno da lassù gli aveva spedito un segnale, simboleggiante l’ora di destarsi dal sonno profondo, era tempo di risorgere e di regalare un brivido di superiorità a quel Mondo a Lui palesemente Inferiore. Come un condannato costretto all’esilio dal Paradiso, era perennemente in cerca del proprio Eden, un regno il cui il sottoscritto avrebbe comandato con rigore e fermezza, impostando un regime autarchico ed imponendo la propria volontà come Legge, seguita da quella incisa nel suo Cuore. Non l’avesse trovato, si sarebbe preoccupato personalmente di darvi vita con le proprie mani, modellandolo secondo le proprie preferenze. Non vaneggiava affatto, non era tipo da sogni irrealizzabili, per il semplice motivo che un Dio può ottenere tutto ciò che è oggetto del suo Desio. Era solamente una brama da rimandare, v’avrebbe donato attenzione a partire dal momento in cui poteva con certezze autoconsiderarsi davvero Forte. Era lì, in quella Valle millenaria famosa per i predecessori che vi s’addestravano, per maturare sia mentalmente che fisicamente. Era sicuro che stava ottenendo risultato, stava mettendo a frutto tutto ciò che gli venne insegnato per incrementare il più possibile le sue doti atletiche e psichiche. Si sentiva bene con se stesso, ma voleva scalare ancora il Monte della Perfezione; si credeva ancora ai piè.
Abbacinato e riscaldato, si sollevò da Madre Terra congelato ed infangato, umido. Senza indugio si svestì completamente, rivelandosi completamente alla Cupola azzurra, al Sole debole, alle Stelle. Depositò sull’erba gli indumenti indi si diresse verso il laghetto, ma raggelò istantaneamente allo sfiorare l’acqua con la punta delle dita. Luccicavano ferrei e cupi i numerosissimi piercing, gli davano un aspetto misterioso ed inquietante, mentre si ravvivava l’appuntita zazzera arancione che gli era franata davanti alle iridi. Si decise, affondò un piede, poi l’altro. Rabbrividiva non poco, il Dominio d’Apollo non era in grado di fornire temperatura gradevole al suo tatto, ciò costava una involontaria contrazione dei muscoli che cercavano di trattenere al loro interno il maggior calore. S’abbandonò, sciogliendosi in quel liquido limpido, rilassando ogni singola cellula. Galleggiava, lentamente il rude freddo diveniva minor ostacolo per il suo corpo che andava via via abituandosi, socchiuse poi i bulbi riportandoli all’oblio. S i l e n c e.
Nulla osava permettersi di disturbare l’aggrovigliata mente che burattinava quel fisico mozzafiato, il minimo fastidio gli avrebbe spezzato la sottile linea che lo manteneva collegato con il presente. Ebbene stava nuovamente meditando, seppur in posizione insolita. L’orecchie ambedue semi immerse fungevano da copertura per i timpani che lo stavano isolando dal circondario; tutto si affievoliva, lo sciabordio dell’acqua che s’infrangeva sulla roccia, il canto dei volatili, il vento che percuoteva rami e foglie. Attimo dopo attimo stava teletrasportandosi in un universo parallelo, come preda d’un sogno, o chissà, d’un brutto incubo. D a r k n e s s.
[…]
Pestava un suolo inesistente che generava svariati cerchi concentrici sotto ogni sua orma. Non v’era un orizzonte, una linea infinita che separava Gaia e Cielo, ma Egli camminava senza meta alcuna, senza sapere dove andare. Si voltava a destra ed a manca, ma in quel loco privo di tutto, ricco solo di tetro animo, non v’era oggetto su cui posar lo sguardo. Gli comparvero poi d’innanzi innumerevoli ma intoccabili immagini, che s’infrangevano come vetro in schegge non appena esse sfioravano il Daemonium. Ricordi, emozioni passate, fatti accaduti oramai giacenti sotto un velo, episodi a lui narrati riguardo la sua infanzia, la sua famiglia, la sua intera vita. Atti cui lui s’era disinteressato completamente dallo sbocciare dell’adolescenza, non erano per lui più un motivo di freno, di paura, di inibizione. Aveva deciso di mettere da parte ciò che poteva esser causa di debolezza, la scelta non gli fu poi nemmeno dolorosa. Nulla più gli interessava delle sue presunte radici con il clan Koga, della madre morta per mano di uno Stronzo non identificato, della solitudine infantile, di rapporti personali mai cercati ed ottenuti. Lui era Solo, e ciò lo rafforzava assai. Un Dio è sempre Solo. Ne era fermamente convinto, un Entità di tal livello non può coesistere con un eguale compagno, poiché l’uno non accetterebbe mai d’essere sottoposto dell’altro. La richiesta di indipendenza dal sottomesso avrebbe portato ad un inevitabile scontro mortale per la supremazia.
[…]
Dunque, scacciate le visioni e sgomberata la mente, congiunse le mani nel Simbolo della Capra attingendo alla propria riserva di chakra. Impastava energia psico-fisica, stava irrorando ogni porzione della sua essenza, l’animo gli ardeva. Apparentemente morto, si crogiolava immerso nell’azzurra sostanza, scorreva Ella raggiante rivitalizzando il “cadavere” del Divino. Spalancò la vista nel frattempo che modificava le dita posizionandole sulla Tigre, occhi iniettati di genuina Follia gli crearono una maschera macabra, ambo le labbra disgiunte trasformarono la loro natural posa prima in un pazzo sorriso, in un ghigno infine. « SHINRA TENSEI! » sbraitò rivolto all’Olimpo, come una fendente d’affilata Spada lacerò la quiete che troneggiava diafana ed insignificante. L’acqua che lo lambiva venne repulsa di meno di mezzo metro, schiumando e gorgogliando a non finire, creando giochi che s’issarono con sciccheria. Un pesce fu preda di quella spinta, Keita serpentino l’agganciò rinchiudendolo tra i palmi e comprimendolo con forza. Anche il pranzo era servito.
Alimentatosi e riposatosi, con il consueto filo di prato tra i denti giaceva spensierato mentre rimuginava sul da farsi. Si sentiva particolarmente in vena d’andar a caccia, forse gasato dalla cattura al volo dello squamato essere di cui rimanevano solo le deboli ossa. Era già trascorso metà pomeriggio, si decise di vestirsi e di equipaggiarsi con il poco armamentario che deteneva, per poi porsi moto addentrandosi nella Foresta prima che l’assenza di luce rendesse impossibile il proseguo. Varcò le prime fronde d’albero, che parvero chiudersi alle sue spalle come a formare una prigione, come volessero trattenerlo lì in eterno, intrappolato in quell’intreccio di legni.
Aveva già cacciato dalla tasca apposita un paio Kunai, uno era saldo nella mancina mentre il secondo nella mano predominante. Procedeva con fare calmo e guardingo, posava il sandalo delicatamente cercando di non rivelare immediatamente la propria presenza, è risaputo che non sempre gli Stranieri sono ben accetti. Ma ben presto avrebbe preso possesso di quella Zona senza Padrone, aveva in mente di sterminare ogni sorta di bestia gli si fosse presentata davanti, magari guadagnando qualche soldo tramite vendita illegale di pregiate pelli, in caso ne avesse procurate. Quel nido era parecchio fuori di Kiri, non faceva nemmeno parte dei suoi territori, era solamente salvaguardato da Shinobi di scarso livello che saltuariamente s’aggiravano per un rapido controllo.
Dopo parecchio avanzare senza cognizione, avvertì il pesante incedere di un essere probabilmente di grossa taglia, ma concentrandosi maggiormente captò che il numero di passi era plurimo: quel soggetto era in compagnia. Mi nascosi dietro ed un albero, attendendo e spiando quelli che si rivelarono poi tre orsi bipedi. Al centro v’era il genitore, un energumeno scuro di pura possa, affiancato da due cuccioli. Ma qualcosa non lo convinceva: aveva con stupore notato dei tratti non comuni a dei normali esemplari, per esempio degli artigli lunghissimi che parevano coltelli, la dentatura molto pronunciata e la loro cecità caratterizzata da bulbi sigillati da fili di sutura. Provocarono essi sgomento, ripudio, riluttanza, infine odio che cresceva esponenzialmente. I tre abitanti del bosco annusavano l’aria che probabilmente Keita aveva smosso, lo stavano localizzando con la medesima bravura d’un segugio addestrato.
Inutile fu permanere dietro la colonna, avevano scoperto dov’era, si stavano muovendo in sua direzione. Si presentò ai loro non-occhi, con fare quieto e sicuro, non di certo si sarebbe intimorito davanti a quei mammiferi che gli ruggivano contro. Gli mostravano le fauci fameliche nel mentre che s’ergevano in piedi agitando le braccia armate di quegli speroni acuminati. Li fissava con sguardo presuntuoso, era concentrato, attento; l’unica distrazione fu il forte olezzo che proveniva dal loro fiato, dal loro alito disgustoso. Era sicuro di cavarsela egregiamente e rapidamente, senza subire nemmeno il minimo danno.
« Regredite, Bestie! » minaccioso sentenziò, fremente di seviziare le loro carni. Rigirava tra i polpastrelli i due pugnali. Inconsci di aver firmato la loro condanna, i due piccoli s’avventarono sul Tiranno mentre l’adulto sembrava richiamarli. Troppo Tardi. Scagliò veemente entrambi i dardi, imprimendo loro massima forza, mirando comunque accuratamente ai loro cuori. I loro scadenti riflessi non gli permisero una evasione abbastanza scaltra, crollarono tra gemiti e sangue che sgorgava come sacchi di sabbia, tonfando. Ne restava uno, incontrollato, posseduto da uno stato di Berserk non trascurabile. L’aveva fatto infuriare, era Cieco dalla rabbia, anzi lo sarebbe stato se non avesse avuto quelle cuciture violacee. Sorrise, voleva trasmettere la propria sicurezza anche all’ultimo nemico, ma quello sembrava non recepire. L’Omicida s’era pure irritato, sprecare le sue energie per eliminare un decerebrato. Tsk, gli toccava fare pure il lavoro sporco; sperava prima o poi, vi fosse qualcuno che l’avesse sostituito, non facendolo così scomodare per così poco.
Per mettere KO un tale ammasso di pelo lurido ed ira, stava destreggiandosi dietro la schiena al fine di armarsi nuovamente. Aveva afferrato ambo gli Shuriken del Vento Demoniaco cui aprì tutte le lame, era pronto ad affettare le membra a quel plantigrado. Dunque ardente di trionfo lanciò il Mulino che roteando vorticosamente assumeva sempre più potenza distruttiva, cercando di menomare le capacità delle zampe posteriori, bersagliando quindi in cintura; la schivata era ardua in quanto la mole che lo costituiva non gli garantiva facile mobilità tra cespugli, radici, rami, tronchi, rovi, pietre. L’agilità poi, non era sicuramente il suo punto favorevole. Avrebbe poi fornito potenziale all’altro arnese che avrebbe però cercato di trafiggere il petto, avrebbe potuto recidere vene ed arterie importanti, cuore e polmoni. Nel tempo però che intercorreva tra i due mezzi volanti avrebbe lasciato cadere al suolo una Bomba Flash che però non sarebbe esplosa prima che il secondo proiettile si fosse allontanato dal Black Devil, altrimenti accecato dal suo stesso ninnolo e conseguentemente incapace di centrare l’obbiettivo.
Attese la fine della vampa dirompente per constatare l’esito del breve atto: il gigante era riverso qualche metro avanti la sua iniziale postazione, aveva probabilmente cerato un assalto poco ponderato che gli costò però la sua inutile vita. Mostrò in parte la bianca chiostra di denti, sintomo di soddisfazione. Aveva purificato in piccola percentuale quel luogo che però necessitava di chissà quanti altri stragi per raggiungere il candido livello di libertà da scorie. Recuperò i componenti dell’arsenale utilizzati, mozzando prima definitivamente il respiro ai due Ingenui eroi con un calcione alla testa ciascuno, passando poi al restante cui pugnalò la gola per assicurargli un biglietto gratuito per un viaggio di sola andata per l’Aldilà.
Trascinò quest’ultimo con fatica notevole fino alla sua postazione, nel frattempo la Luna s’era resa protagonista dandosi Lume, schiarendo fiocamente ciò che riusciva. Con un Kunai poi aprì verticalmente la pancia del cadavere, ed iniziò senza impressione alcuna a sviscerarne il contenuto, voleva ricavarsi un sacco in cui dormire di notte. Puzzava, un odore misto di selvaggio e morte si stava diffondendo, ma al Cacciatore non tangeva affatto. Non gli era poi così nuovo quell’aroma. Sciacquò l’interno della pelle, poi si lavò velocemente nel solito laghetto. Si coprì di quel manto, addormentandosi tra il tenero caldo ed il chiarore della pallida Sfera.
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