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My Sharingan's Story Sfoderavo con compiacenza quel prezioso tesoro; quella fu la prima volta che la gemma dal colore scuro venne mostrata a qualcuno che non ero io riflesso nello specchio. Ella rifulgeva con il suo massimo splendore sotto le candide sfere elettriche che illuminavano tutto, mentre le dita erano ancora nella medesima precedente posizione a sorreggere la fascia con la lamina. Nessuno, a parte me, colei che mi trapiantò l’organo della vista e il defunto Daisuke è a conoscenza di tale segreto; quella dottoressa fece una promessa sotto volontà del mio amico, cioè non rivelare a nessuno di quell’intervento, la notizia sarebbe saltata fuori a tempo debito. Con il doujutsu mi sarei fatto ben presto un nome: Kakashi dello Sharingan. Quel potere mi avrebbe fatto salire in alto, almeno pensavo, e se in vita mia avrei fatto carriera devo tutto a quel giovane ragazzo deceduto. All’inizio dei miei anni, non appena appresi le basi del Ninja, credevo fermamente di non andare molto lontano, mi sentivo una persona odiosamente normale, senza talento, senza possibilità, nonostante mi applicasi continuamente. Ma poi, a partire da quel dì, mi sentivo così diverso, speciale, fuori dal comune; da allora quando lottavo, mi sembrava di farlo io due: io e l’Uchiha. Per quel motivo divenni abbastanza sicuro di me stesso, e anche se ero solo in realtà sapevo bene di non esserlo, inoltre fuori dopo l’Accademia avevo acquisito un grande amico: Kiba.
Gli permettevo ancora di osservare al meglio quell’incantevole futura finte di potere, ed anche al cane qualora avesse avuto voglia ed interesse ad ammirare. Non attesi comunque poi molto per riportare il coprifronte al suo posto ed allungare il braccio lungo il fianco. Si notavano durante lo scrutamento segni di interesse: il naso aguzzo si mosse lievemente, si era tirato all’insù, mentre gli occhi poco strabuzzati sembravano essere atti a notare ogni minimo particolare. Le labbra si separarono, pronte a parlare, mentre il cane a mo’ di attenta sentinella restava a guardarsi in giro accomodato sulla testa del padrone.
Sharingan,dunque.Senza dubbio un’innata che ti si addice nella persona,bisognerà vedere più in là se sarà altrettanto compatibile con il tuo stile di combattimento.Mi piacerebbe sapere come fai ad avere quest’occhio,nel senso,non è usanza comune ritrovarsi in possesso della bloodline di un clan che non è il proprio.Comunque sia,non posso certo rifiutarmi,anzi ti userò come scusa per non tornare in quella classe di mocciosi,non mi fa proprio voglia,mentre con te sicuramente io e Akamaru ci divertiremo un sacco di più.Mmm..fammi pensare,dove possiamo andare ad allenarci?Trovato!Andiamo in un luogo familiare..molto familiare,avrai senz’altro capito di cosa sto parlando.Uff,ma quanto ci mette il custode a tornare indietro?Senza chiavi non possiamo andare da nessuna parte e dobbiamo sbrigarci a filar via,altrimenti Izumo mi costringerà a tornare ad assistere alla lezione e..addio allenamento.Nel frattempo che aspettiamo se ti va puoi raccontarmi di quell’occhio:non lo so,tuttavia credo che quella cicatrice proprio sopra di esso sia il segno di un trapianto.E’ importante che tu lo sappia,perché esso sarà determinante per il tuo futuro sviluppo e l’eredità che porterai..Mangekyou o Chingekyou.Entrambi potentissimi ma anche diversissimi.
Esatto Kiba-sensei, comunque adesso le racconterà la mia storia: quando nacqui, ebbi un handicap, ovvero non avevo l’occhio sinistro, difetto genetico ereditato da mio padre. Io crebbi, e conobbi un ragazzo appartenente al clan Uchiha: Daisuke. In breve tempo diventammo grandi amici, ma purtroppo si sa anche le cose belle sono destinate a finire. Il ragazzo s’ammalò di una rara malattia, incurabile a qual tempo, e prima di morire volle che un suo occhio mi trapiantato; l’unica cosa che mi rammarica è che non feci in tempo a ringraziarlo poiché morì mentre subivo l’intervento; questo è tutto. La cicatrice è un piccolo segno appunto dovuto all’innesto della pupilla, poiché la dottoressa dovette allargare un poco la cavità per inserirla.
Credo che il luogo familiare di cui parla sia il Campo d’Addestramento numero Tre, va più che bene, dobbiamo solo attendere il custode ora e farci dare le chiavi. Comunque è ancora presto parlare di Mangekyou o Chingekyou, non crede? Ma credo che il puro stadio finale io non lo potrò ottenete dato che non sono un Uchiha, quindi sarò destinato ad avere l’altro, sempre che io riesca a sbloccarlo ovviamente.
Risposi in breve, non dilungandomi più del dovuto nel discorso. L’Inuzuka si avvitò, portando le sua spalle di fronte a me, le braccia si mossero dalla loro posizione portandosi al petto, probabilmente incrociandosi, il piede mancino si muoveva: il tallone rimaneva puntato al pavimento, mentre la pianta s’alzava e s’abbassava andando a sbattere con le mattonelle chiare. Stavamo aspettando un qualcuno, che stranamente non era ancora tornato alla sua postazione dopo aver svolto la richiesta affidatagli.
Mi presi il permesso di accomodarmi sulla panchina in precedenza usata per sedermi, assumendo la solita aria ed una posizione uguale a quella usata prima.
[…]
Un corpo, due scarpe erano in movimento; quello che con buone probabilità poteva essere il custode stava posando pesanti passi sul suolo, e si stava dirigendo verso la mia/nostra posizione. Il suo volto si mostrò pochissimi attimi dopo, la mi attenzione venne catturata da quell’arrivo. Mi alzai per l’ennesima volta, seguendo l’omino vestito di blu che si dirigeva nella; con una rapida occhiata guardai il Sensei, poi cercai di fargli capire con un gesto di mano, quello solito che si usa per dire “Aspetta” ad una persona, che sarei andato io a prendere la chiave necessaria. Il guardiano posò le cosce sulla morbida imbottitura della sua sedia di pelle nera, mentre io avanzai il viso al vetro.
Mi servirebbe la chiave del Campo numero Tre, grazie.
Dissi, con tono cortese all’uomo, che imprimendo alla sedia un moto rotatorio di circa 45 gradi verso ovest, si portò di fronte a numerosi mazzi di chiavi. Vi erano circa una ventina di ganci, divisi in cinque file da quattro, dopo un attimo di esitazione ne prese una della prima fila al posto centrale. Si riportò nella angolazione precedente, ruotando il perno della seggiola. Avanzò la mano che tratteneva quel piccolo arnese e lo fece passare sul ripiano di legno attraverso un piccolo spazio che permetteva il transito degli oggetti dall’esterno verso l’interno della gabbia e viceversa.
Raccolsi il ninnolo facendolo riposare nella mia mano destra, poi rivolto al sensei, con leggero tono ironico mi rivolsi.
Andiamo, non le spiace se le faccio strada io vero?
Non era più come una volta, che Kiba stava davanti con il Cane e noi studentelli alle prime armi, non tutti s’intende, seguivamo come un gregge di pecorelle con il pastore. Ero ormai abbastanza cresciuto e maturo per dettare io il percorso da fare, nonostante il sensei lo conoscesse. Mi condussi, senza assicurarmi di venire seguito, cosa credo abbastanza palese, nel retro dell’enorme struttura; in quel loco venne affrontata la prima prova pratica, che consisteva semplicemente nell’eseguire una jutsu a piacere senza uccidere/ferire nessuno dei presenti. Me la ricordo, quella Palla di Fuoco eseguita alla perfezione, con classe e senza strafare come altri fecero. Da lì, imboccai un sentiero sterrato, i sassolini scricchiolavano soggetti alla pressione del mio peso, la terra secca li spostava lasciando spazio alle orme rigate orizzontalmente dei calzari. Un enorme cancello, affiancato da una murata lignea si parava d’innanzi con imponenza. Con veloce movimento portai la chiave trattenendola tra pollice ed indice mancini, e la inserii nella serratura che chiudeva la struttura metallica, che si aprì dopo che la serratura scattò all’indietro, cigolando rumorosamente mentre i battenti venivano spinti.
Mi addentrai, costantemente convinto d’essere seguito da cane/padrone, nella boscaglia, che s’oscurava a causa della barriera che le fronde intrecciavano non permettendo al sole di scaldare ed illuminare, tutto era ricoperto da un tetro velo. Continuai a camminare, proseguendo verso il centro, nel quale svolgemmo le ultime tre prove: il cammino sugli alberi, quello sull’acqua conseguito dalla verticale e la sfida contro il sensei. Bei tempi, ormai andati purtroppo. Raggiunsi il lago, che come mesi orsono era sempre limpido e calmissimo, rimembrai anche quali furono i tronchi sui quali ci esercitammo.
Quanti ricordi, vero Sensei? Comunque, credo sia ora di iniziare.