Nei post che seguiranno verranno narrate le vicende degli araldi del destino, i giovani Sanbo Hozuki e Ryosuke Mikawa, che svilupperanno rispettivamente l'energia verde e l'allenamento per l'abilità medica, incontrandosi e rendendo più avvincente il loro cammino.
Per giustificare l'assenza prolungata del Pg Ryosuke Mikawa, inoltre, l'allenamento verrà descritto tramite Flash Back raccontando gli avvenimenti maggiormente importanti.
Eccomi tornato alla solita vita. I giorni passavano lunghi e noiosi da quando avevo conseguito la promozione a genin. Non che mi dispiacesse vivere un po’ in tranquillità, lontano dai guai, passando le ore a guardare il cielo, ma sentivo che la mia vita avesse assunto una posizione di stallo. Spesso venivo agguanto dai rimorsi del mio nulla-fare, che si manifestavano sempre più forti e decisi, ma era sufficiente chiudere gli occhi e pensare alle nuvole, così libere e leggere, per scacciare i pensieri portatori di fatiche, in cambio di più soavi fantasticherie. Ovviamente, il crudele mondo non è tale se non dimostra la sua asprezza nei confronti di coloro che vogliono solamente vivere una vita pacifica. E così, come emissario di un qualche dio arcano, mio zio Heishi doveva completare il doveroso onere di rompermi le balle. Non che avesse molte difficoltà nel farlo, anzi, gli riusciva parecchio bene, solo che io, molto più esperto di lui, riuscivo a tenergli testa egregiamente, ignorandolo. Le cose, purtroppo, avevano preso quella piega in seguito alla dura litigata fatta prima che partissi per l’isola di Nagi, nel paese del Thè, dove avevo conseguito il titolo di ninja di Kiri. Non riuscivo a capirne il motivo, ma tanto io ero diventato menefreghista nei suoi confronti, quanto lui era diventato apprensivo, se non addirittura ossessivo e oppressivo. Ogni occasione era buona per tirare fuori il discorso di mio fratello e della vendetta, e pur di sviare l’argomento me ne scappavo via per qualche ora. Tuttavia, la situazione non era particolarmente pesante e in casa si viveva relativamente bene: gli scontri accesi avvenivano sempre più di rado, e anche mia zia viveva più serenamente. Spesso io e lo zio passavamo intere mattinate ad allenarci, ma nonostante ciò la vita era così monotona e ripetitiva che stentavo a riconoscere i giorni di festa dagli altri. Quel dì ci svegliammo molto presto e iniziammo subito l’allenamento. Consumammo una magra colazione e dopo qualche minuto di riscaldamento iniziammo con l’addestramento vero e proprio. Ci posizionammo a quattro metri di distanza l’uno dall’altra e ci lasciammo cullare per pochi attimi dalla morbida brezza del mattino. «E’ da tanto che non combattiamo… mi mancava questa sensazione» dissi ridacchiando. Strisciai i piedi a terra e dopo aver inspirato profondamente, fissai il mio nemico impassibile. Abbassai il baricentro e dopo essermi scrocchiato il collo, iniziai a ruotare il polso sinistro, poi venne il turno del destro; iniziai ad analizzare il campo di gioco. Con rapide occhiate scorsi tutto ciò che poteva tornarmi utile: il muro, l’acqua, l’albero, la terra, la luce. Tutto. Conscio del fatto che combattere contro un ex-chunin non si sarebbe rivelata una passeggiata, passai in rassegna ciò che potevo realmente fare senza sbruffonate. Scorta la strategia oltre la nebulosa tormenta dei pensieri, decisi di attuarla. Mi lanciai contro il nemico eseguendo i rapidi seal della moltiplicazione acquatica. Il mio avversario, sorpreso, si ritrasse indietro e rimase spiazzato quando vide apparire attorno a sé tre copie perfette del sottoscritto. Scivolando mi portai sotto il mio nemico; lì, piegai le braccia all’indietro e facendo leva sui polsi, tentai una doppietta al livello dello stomaco. Il vecchio parò il colpo con un braccio solo, ma la violenza dell’impatto lo fece strisciare all’indietro per parecchi metri. Nel frattempo due dei miei cloni avevano afferrato il terzo, uno da una parte e l’altro dall’altra, e lo scagliarono mentre il nemico era ancora vittima dell’attacco accusato. Rapido, il clone eseguì una piroetta in aria, in modo da sferrare un calcio discendente verso il capo del nemico. Io, ovviamente, non rimasi con le mani in mano, ma afferrate due stelline ninja, le scagliai verso la gracile figura segnata dal tempo. Quest’ultima, senza batter ciglio, spiccò un salto e contrastò il calcio del clone in arrivo con un altro calcio, facendo volare la copia per parecchi metri. In quel modo riuscì a schivare anche i due shuriken e tutte le fatiche si rivelarono vane, o quasi. Tutto faceva parte della mia strategia. Infatti, nel lanciare le due armi, ne avevo legata una con uno spago di acciaio invisibile, e in quello constava la mia trappola. Prima che il vecchio avesse il tempo di atterrare, con un rapido movimento del braccio strattonai il filo facendo tornare indietro lo shuriken. “Ti ho fregato!” pensai, ansioso di vedere la sconfitta del mio nemico. L’uomo, forte della sua agilità, nonostante l’avanzata età spiccò un salto mortale all’indietro, sufficientemente alto da permettergli di schivare l’arma. Incredibile, pensai. «Ma non è abbastanza!!» bisbigliai afferrando per il colletto uno dei miei cloni con il braccio libero. Lo scagliai con forza contro il mio avversario mentre l’altra copia, alla mia destra, gli lanciò un kunai. Ovviamente non poteva essere tutto così semplice, e conscio di ciò, con maestria recuperai lo shuriken ancora in volo e mi parai il volto incrociando le braccia, chiudendo pure gli occhi. Il clone diretto verso lo zio aveva tra le mani un flash, e portando le braccia in avanti, lo fece detonare, avvolgendo l’intera zona di un potente bagliore, bianco come le nuvole e accecante come solo il sole può esserlo. L’esplosione generò un forte sibilo: così acuto che fu percepito per due interi isolati, poi, finito il momento di disordine, riordinai le idee e rapido mi scagliai contro il nemico, che ancora stordito, si muoveva goffamente alla ricerca di un punto di appoggio. Scattante, mi portai affianco il mio avversario, e in salto sferrai un poderoso calcio al livello della testa. Non gli sarebbe successo alcunché, ma i prolungati attimi di confusione mi avrebbero permesso di attuare il colpo decisivo. Tuttavia l'attacco fu vano, o per meglio dire, raggiunse in pieno il mio nemico, ma questi svanì in una ridicola nuvoletta di fumo. Improvvisamente mi accorsi che qualcosa non tornava. Mancava qualcosa all’appello. “Il kunai! Dov’è il kunai?” non feci a tempo a completare i miei pensieri, che mi sentii afferrato da chissà cosa e letteralmente scosso come un sacco di patate. Un improvviso capogiro mi colpì, e poi sola confusione: con un tonfo sordo caddi a terra e di fronte a me, sprezzante, lo zio, che non si era nemmeno sgualcito un poco il kimono azzurro, mentre faceva roteare il coltello, quello che gli avevo lanciato, con l’indice sinistro: «Non dovresti giocare con simili aggeggi, sai? Sono molto pericolosi.» Ansante, mi rialzai e cercai di fare mente locale. Era riuscito a schivare tutti i miei colpi nonostante avessi eseguito una strategia incredibilmente complessa e ben elaborata: “Davvero incredibile.” Tossii, e una volta in piedi analizzai nuovamente il territorio. Ruotai gli occhi in direzione del mio avversario, e con fare flemmatico inarcai la schiena all’indietro, lasciando fuoriuscire una risata quasi inquietante; dopo aver terminato la scenata, ritornai a fissare il mio nemico e non potei far a meno che spendere qualche parola di raccomandazione in previsione degli attacchi che mi sarei apprestato a compiere: «Bravo zio. Non riesco ancora a metterti in difficoltà. Il divario è troppo ampio perché io continui a giocare. Penso sia giunto il momento di passare a qualcosa di pesante. – giunsi le mani in modo da compiere qualche seal – Prendi questo…» conclusi sussurrando. «Aspetta!» esclamò improvvisamente l’uomo, distraendomi dal portare a compimento il mio colpo: «Se vuoi fare sul serio, allora penso sia giunto il momento di prendere in mano le armi e di iniziare a combattere usando le katane.» Impallidii e balbettando espressi la mia perplessità: «Sei sicuro? Non credi rischieremmo di farci male?» Al sentire quelle parole, l’uomo scoppiò in una grassa risata: «Ma come? Non eri tu quello che aveva proposto di iniziare ad andare sul pesante? Ora invece, che senti che potremmo farci un po’ del male, ti tiri indietro?» paonazzo, accennai la mia approvazione con un movimento del capo, ed entrai in casa a prendere le armi. Tornando all’esterno, fui leggermente abbagliato dalla forte luce del sole e, una volta riacquisita la vista, passai la lunga arma bianca al mio rivale. Egli la prese al volo, e con indicibile armonia sfilò la lama dal fodero; ciò mi lasciò letteralmente a bocca aperta e notato un cenno da parte del nemico, mi affrettai a estrarre la spada. Presi la custodia e la scagliai all’ombra del grande albero che sovrastava la casa. Impugnai l’arma con entrambe le mani e con sguardo deciso, mi fissai sull’avversario. Senza che me lo aspettassi, però, fu proprio lui a cominciare, scattandomi contro brandendo la temibile Katana. Essa rifletteva la luce del sole in maniera limpida e netta; era intarsiata di decori vari e l’elsa composta di stoffe che, intrecciate fra loro, andavano a formare il classico motivo romboidale. Con un morbido movimento ruotò l’intero corpo e portò un violentissimo colpo in direzione della mia spalla. Con celerità alzai la mia arma in modo tale da difendermi da tale offensiva, ma il colpo si rivelò così potente e ben mirato da farmi balzare via di qualche metro, e finii per cadere a terra. Mi ripulii della saliva che mi era uscita e, incredulo, mi rialzai. Senza esitare, l’uomo mi si scagliò nuovamente contro, tentando ancora una volta un fendente discendente; non mi lasciai spiazzare: sicuro, ruotai l’intero busto e, lasciandomi andare in un grido liberatorio, menai un potente colpo contro la spada del mio nemico: le due armi cozzarono sonoramente avvolgendo l’intera zona di scintille e, senza che me ne rendessi conto, mi ero lasciato coinvolgere da quel momento di foga. Approfittando del potente impatto ruotai dalla parte inversa e menai un secondo fendente laterale, che fu parato con semplicità, poi eseguii un terzo colpo mirando leggermente più in basso, ma anch’esso fu bloccato. In quel momento però il mio avversario non si limitò a parare, ma tentò immediatamente di colpirmi con un taglio diagonale. Il colpo lo parai con potenza e decisione e, senza farmi attendere, colpii con un rapido calcio diretto allo sterno del vecchio che, a causa dell’impatto, fu costretto a ritrarsi di un paio di metri. «Notevole… te la cavi meglio del previsto, Saanbo…» ghignò il vegliardo. «Che dire? Mi solo allenato bene in questo periodo.» risposi riassumendo una posizione flemmatica. «Pare proprio… – la voce s’interruppe e non sentii più altro – di si!» concluse il vecchio dopo essersi spostato, affianco a me, con un movimento rapidissimo. «Ma a quanto pare commetti sempre i soliti errori!» con quella frase caricò un fendente al livello del deltoide sinistro e potei far gran poco per difendermi. Istintivamente, alzai la spada e, contraendo tutti i muscoli del corpo, tentai di oppormi a quell’assalto, ma invano, poiché il violento colpo fece titubare pure la mia solida difesa, sbalzandomi sulla destra per parecchi metri. Mi rialzai, ansante, dopo poco, e ridacchiando, mi rivolsi al mio avversario. «Non credi che dovresti insegnarmele tutte quelle tecniche, invece che usarmele contro?» L’uomo, con occhi pieni di pietà per un giovane stolto come me, chinò il capo e, iniziando a ridere tra sé e sé, parlò: «Pensi davvero di essere degno di imparare questo stile di combattimento?» chiese, provocatorio. «Certo che lo sono!» replicai io, risoluto, abbandonando l’ironia. Egli rimase sorpreso, poi chinò ancor di più la testa e si poggiò a terra, gambe incrociate. Rimasi alcuni attimi a fissarlo, poi raccolsi la mia arma da terra e recuperai il fodero, tenendo sott’occhio l’uomo in riflessione, alla disperata ricerca di qualche segno di approvazione. Sempre con gli occhi fissi su di lui mi legai la spada alla schiena e sistemai accuratamente l’elsa. Ancora nulla. Rimase fermo e zitto per alcuni minuti, ad occhi chiusi, mantenendo una respirazione regolare e poco frequente; poi finalmente compì i primi movimenti, che ovviamente vennero carpiti dalla mia attenta osservazione, e lentamente si rialzò. Fremevo dalla voglia di sentire la sua sentenza. Serio, con occhio corrucciato, proferì: «Non credo tu sia pronto. Tuo fratello, alla tua età, era molto più abile. Ad ogni modo, non hai i mezzi per imparare. Ti manca Tenseiga.» «T-t-tenseiga?» chiesi, incuriosito. «Si. Tenseiga. La spada che regalai a tuo fratello – s’incupì – e che gli fu strappata indegnamente da un altro shinobi…» Tra i tanti quesiti che mi penavano in quel momento, uno tra tutti, decisi di risolverlo. «Ma chi è quest’uomo?» domandai, insicuro. «Non lo so nemmeno io. – replicò lui, schietto – Tuo fratello, forse per la vergogna, non volle rivelarmelo. Devi sapere – si toccò il naso – che tuo fratello era un ninja molto talentuoso. Forse uno dei migliori che avessi mai visto. Era riuscito ad ottenere la carica di Chunin pochissimo tempo dopo l’aver conseguito il grado Genin. Era temuto dai nemici e rispettato dagli alleati. In pochi anni sarebbe riuscito ad ottenere pure il grado di Jonin.» i suoi occhi luccicavano in quel momento, come se nella sua mente vagassero immagini e ricordi vecchi come il dolore provato alla scomparsa del giovane nipote. Il rammarico di non esser mai riuscito a tornare in possesso dell’arma lo aveva completamente corroso. Bramava riconquistarla: sapeva che Ichigo avrebbe voluto rientrarne in possesso, perché molto legato a quella spada. A sentire quelle parole mi si generò un vuoto, dal gusto amaro, e non potei far a meno che tornare al passato con i bei momenti passati assieme. Una lacrima, solitaria, mi rigò il viso, ma non stetti a singhiozzare sui tempi ormai andati, piuttosto iniziai a pensare a ciò che quel racconto mi aveva trasmesso. Misi da parte l’apprendimento dell’arte della spada, e decisi che come prima cosa, sarei dovuto ritornare in possesso della spada della mia famiglia. Il vento proveniente dalla costa si alzò, gonfiando i vestiti della gente e le tende delle case. Le fronde degli alberi oscillavano , lasciando cullare le piccole foglie dal morbido soffio della brezza. I capelli iniziarono ad agitarsi come un fuoco e lentamente la luminosa giornata fu oscurata da tetri e minacciosi nembi, presagio temporalesco. Ci guardammo a vicenda e rientrammo in casa, silenziosi. Il pomeriggio passò lento e noioso. La pioggia aveva iniziato a scrosciare da numerose ore, e non accennava a diminuire. Le nubi avevano completamente oscurato il cielo, e della luce del sole non rimanevano che pochi spiragli. Incupito, passai il tempo a guardare dalla finestra della mia umile stanza. Una sobria camera arredata da solo il letto, l’armadio e un comò costituiva il reame delle mie fantasticherie. Tra quei muri avevo sognato e immaginato per anni. Quante volte avevo simulato delle ardue lotte tra ninja un po’ per via del mio io infantile, un po' perché appassionato. Di fronte ai miei occhi, schiere di spietati shinobi che tutti assieme mi si accanivano contro, ed io, abile come solo nei sogni si può essere, li sbaragliavo tutti, uno dopo l’altro. Era così che passavo i cupi dì di Kiri. Nella noia e nell’ozio. Solo nell’ultimo periodo avevo iniziato ad allenare il controllo del chakra per potermi perfezionare. Più esperienza equivale a più abilità, come diceva il mio sensei d’accademia Kiba Inuzuka. “Già…l’accademia.” Cominciai a rimuginare su ciò che avevo vissuto durante l’addestramento nell’isola del villaggio del thè. Oltre ad essermi valso la promozione a genin, il viaggio mi aveva aiutato a fare conoscenza con degli stranieri, dei quali solo uno, Rey Uchiha, aveva attirato la mia attenzione. Era uno spavaldo, non particolarmente abile, né carismatico. Era davvero un brutto ceffo sotto tutti i punti di vista, tuttavia, nonostante mi avesse offeso svariate volte, era riuscito ad ottenere la mia simpatia, o forse dovrei dire, la mia compassione; il divario tra me e lui era stato oggetto delle mie numerose riflessioni durante quelle ore spese in quell’isola dimenticata da tutto e tutti. La questione dell’abilità innata mi tornò alla mente veloce come un lampo. Improvvisamente un bagliore illuminò il cielo e dopo pochi attimi un fragore assordante squarciò l’aria. I vetri tremarono e dal fondo delle scale, la zia sbraitava cose incomprensibili, ma non me ne curai. Con il pensiero tornai alla faccenda della Kekkei Genkai, e giunsi alla conclusione che, nonostante si trattasse di qualcosa di pratico in combattimento, rappresentava soprattutto un segno di appartenenza. Il legame con qualcosa e qualcuno. Un rapporto che cinge due elementi inscindibili. Chi ero? Il solo pensiero del non possedere un’abilità mi faceva tremare le gambe. Come sarei potuto divenire un’abile shinobi senza un’appropriata capacità innata? Avevo paura. Non mi sentivo parte del mondo. Ero un singolo essere umano tra migliaia di capaci ninja. Magari c’era qualcosa di ancora sopito in me, o almeno così speravo, ma nel fondo del mio cuore sapevo di non avere alcun talento nascosto, a differenza di quello spavaldo pulcino del clan Uchiha. Lo invidiavo e, nonostante fossi consapevole della mia superiorità, non riuscivo a darmi pace. Strinsi forte i pugni e picchiai con violenza il pavimento. «Non voglio finire come un qualsiasi altro…» ringhiai. «Non sei ancora pronto.» Trasalii. Di scatto mi voltai e vidi, appoggiato sullo stipite della porta, zio Heishi, che mi guardava con occhi pieni di misericordia e pietà. «Zio!» esclamai, sorpreso. «Saanbo. – varco la linea della porta e a passi lenti e leggeri mi si avvicinò – non sei pronto per sviluppare un’abilità innata. – tentai di interromperlo, ma mi fermò – O per meglio dire. – si sedette su di un angolo del letto – Non puoi svilupparne una. Nella nostra famiglia non ci sono i geni necessari per poter possedere una peculiarità derivante dal sangue dei nostri predecessori.» Gli occhi mi si gonfiarono a sentire quelle parole che, come temevo, confermarono i miei sospetti. Chinai il volto per non mostrare le mie debolezze. «Ad ogni modo, non disperare. Non devi credere che senza una Kekkei Genkai non sarai mai nessuno. L’abilità di un ninja va oltre a quello. Il vero potere dei ninja non sta nel numero di Jutsu posseduti. – alzando la testa si lasciò scappare un sorriso – Me lo disse una volta un amico. La vera abilità di un ninja sta ne- …» un secondo boato, preceduto di qualche secondo dal bagliore dei lampi, scosse l’intero villaggio, e fece tremare nuovamente tutte le finestre della casa, ma nonostante ciò, fui in grado di carpire le parole conclusive, tanto che mi fecero aprire gli occhi sulla natura dell’essere uno shinobi. Forse le aveva dette per tirarmi su di morale, o forse perché, convinto, ci credeva veramente, ma non avrei mai scordato quelle parole. M’inginocchiai di fronte al mio mentore di vita e, singhiozzando, lo fissai dritto negli occhi che, pieni di amore paterno, ruppero il mio silenzioso lacrimare; disperato, cinsi le sue gambe con le mie braccia, e lasciai che le pene e i cattivi pensieri scrosciassero fuori dal mio corpo come la pioggia che, oltre quella finestra, andava purificando i peccati del villaggio.