The Road So Far...

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¬Kob
view post Posted on 20/4/2012, 14:20




CITAZIONE

Allenamento Cooperativo.

Nei post che seguiranno verranno narrate le vicende degli araldi del destino, i giovani Sanbo Hozuki e Ryosuke Mikawa, che svilupperanno rispettivamente l'energia verde e l'allenamento per l'abilità medica, incontrandosi e rendendo più avvincente il loro cammino.

Per giustificare l'assenza prolungata del Pg Ryosuke Mikawa, inoltre, l'allenamento verrà descritto tramite Flash Back raccontando gli avvenimenti maggiormente importanti.




Edited by ¬Kob - 20/4/2012, 18:52
 
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Trash.
view post Posted on 22/4/2012, 10:25





CITAZIONE
Narrato
“Pensato”
«Parlato»

Atto IV: Ricordi di una spada


Capitolo I: Tenseiga



Eccomi tornato alla solita vita. I giorni passavano lunghi e noiosi da quando avevo conseguito la promozione a genin. Non che mi dispiacesse vivere un po’ in tranquillità, lontano dai guai, passando le ore a guardare il cielo, ma sentivo che la mia vita avesse assunto una posizione di stallo. Spesso venivo agguanto dai rimorsi del mio nulla-fare, che si manifestavano sempre più forti e decisi, ma era sufficiente chiudere gli occhi e pensare alle nuvole, così libere e leggere, per scacciare i pensieri portatori di fatiche, in cambio di più soavi fantasticherie. Ovviamente, il crudele mondo non è tale se non dimostra la sua asprezza nei confronti di coloro che vogliono solamente vivere una vita pacifica. E così, come emissario di un qualche dio arcano, mio zio Heishi doveva completare il doveroso onere di rompermi le balle. Non che avesse molte difficoltà nel farlo, anzi, gli riusciva parecchio bene, solo che io, molto più esperto di lui, riuscivo a tenergli testa egregiamente, ignorandolo.
Le cose, purtroppo, avevano preso quella piega in seguito alla dura litigata fatta prima che partissi per l’isola di Nagi, nel paese del Thè, dove avevo conseguito il titolo di ninja di Kiri. Non riuscivo a capirne il motivo, ma tanto io ero diventato menefreghista nei suoi confronti, quanto lui era diventato apprensivo, se non addirittura ossessivo e oppressivo. Ogni occasione era buona per tirare fuori il discorso di mio fratello e della vendetta, e pur di sviare l’argomento me ne scappavo via per qualche ora. Tuttavia, la situazione non era particolarmente pesante e in casa si viveva relativamente bene: gli scontri accesi avvenivano sempre più di rado, e anche mia zia viveva più serenamente. Spesso io e lo zio passavamo intere mattinate ad allenarci, ma nonostante ciò la vita era così monotona e ripetitiva che stentavo a riconoscere i giorni di festa dagli altri.
Quel dì ci svegliammo molto presto e iniziammo subito l’allenamento. Consumammo una magra colazione e dopo qualche minuto di riscaldamento iniziammo con l’addestramento vero e proprio. Ci posizionammo a quattro metri di distanza l’uno dall’altra e ci lasciammo cullare per pochi attimi dalla morbida brezza del mattino. «E’ da tanto che non combattiamo… mi mancava questa sensazione» dissi ridacchiando. Strisciai i piedi a terra e dopo aver inspirato profondamente, fissai il mio nemico impassibile. Abbassai il baricentro e dopo essermi scrocchiato il collo, iniziai a ruotare il polso sinistro, poi venne il turno del destro; iniziai ad analizzare il campo di gioco. Con rapide occhiate scorsi tutto ciò che poteva tornarmi utile: il muro, l’acqua, l’albero, la terra, la luce. Tutto. Conscio del fatto che combattere contro un ex-chunin non si sarebbe rivelata una passeggiata, passai in rassegna ciò che potevo realmente fare senza sbruffonate. Scorta la strategia oltre la nebulosa tormenta dei pensieri, decisi di attuarla. Mi lanciai contro il nemico eseguendo i rapidi seal della moltiplicazione acquatica. Il mio avversario, sorpreso, si ritrasse indietro e rimase spiazzato quando vide apparire attorno a sé tre copie perfette del sottoscritto. Scivolando mi portai sotto il mio nemico; lì, piegai le braccia all’indietro e facendo leva sui polsi, tentai una doppietta al livello dello stomaco. Il vecchio parò il colpo con un braccio solo, ma la violenza dell’impatto lo fece strisciare all’indietro per parecchi metri. Nel frattempo due dei miei cloni avevano afferrato il terzo, uno da una parte e l’altro dall’altra, e lo scagliarono mentre il nemico era ancora vittima dell’attacco accusato. Rapido, il clone eseguì una piroetta in aria, in modo da sferrare un calcio discendente verso il capo del nemico. Io, ovviamente, non rimasi con le mani in mano, ma afferrate due stelline ninja, le scagliai verso la gracile figura segnata dal tempo. Quest’ultima, senza batter ciglio, spiccò un salto e contrastò il calcio del clone in arrivo con un altro calcio, facendo volare la copia per parecchi metri. In quel modo riuscì a schivare anche i due shuriken e tutte le fatiche si rivelarono vane, o quasi. Tutto faceva parte della mia strategia. Infatti, nel lanciare le due armi, ne avevo legata una con uno spago di acciaio invisibile, e in quello constava la mia trappola. Prima che il vecchio avesse il tempo di atterrare, con un rapido movimento del braccio strattonai il filo facendo tornare indietro lo shuriken. “Ti ho fregato!” pensai, ansioso di vedere la sconfitta del mio nemico. L’uomo, forte della sua agilità, nonostante l’avanzata età spiccò un salto mortale all’indietro, sufficientemente alto da permettergli di schivare l’arma. Incredibile, pensai. «Ma non è abbastanza!!» bisbigliai afferrando per il colletto uno dei miei cloni con il braccio libero. Lo scagliai con forza contro il mio avversario mentre l’altra copia, alla mia destra, gli lanciò un kunai.
Ovviamente non poteva essere tutto così semplice, e conscio di ciò, con maestria recuperai lo shuriken ancora in volo e mi parai il volto incrociando le braccia, chiudendo pure gli occhi. Il clone diretto verso lo zio aveva tra le mani un flash, e portando le braccia in avanti, lo fece detonare, avvolgendo l’intera zona di un potente bagliore, bianco come le nuvole e accecante come solo il sole può esserlo. L’esplosione generò un forte sibilo: così acuto che fu percepito per due interi isolati, poi, finito il momento di disordine, riordinai le idee e rapido mi scagliai contro il nemico, che ancora stordito, si muoveva goffamente alla ricerca di un punto di appoggio. Scattante, mi portai affianco il mio avversario, e in salto sferrai un poderoso calcio al livello della testa. Non gli sarebbe successo alcunché, ma i prolungati attimi di confusione mi avrebbero permesso di attuare il colpo decisivo. Tuttavia l'attacco fu vano, o per meglio dire, raggiunse in pieno il mio nemico, ma questi svanì in una ridicola nuvoletta di fumo. Improvvisamente mi accorsi che qualcosa non tornava. Mancava qualcosa all’appello. “Il kunai! Dov’è il kunai?” non feci a tempo a completare i miei pensieri, che mi sentii afferrato da chissà cosa e letteralmente scosso come un sacco di patate. Un improvviso capogiro mi colpì, e poi sola confusione: con un tonfo sordo caddi a terra e di fronte a me, sprezzante, lo zio, che non si era nemmeno sgualcito un poco il kimono azzurro, mentre faceva roteare il coltello, quello che gli avevo lanciato, con l’indice sinistro: «Non dovresti giocare con simili aggeggi, sai? Sono molto pericolosi.» Ansante, mi rialzai e cercai di fare mente locale. Era riuscito a schivare tutti i miei colpi nonostante avessi eseguito una strategia incredibilmente complessa e ben elaborata: “Davvero incredibile.”
Tossii, e una volta in piedi analizzai nuovamente il territorio. Ruotai gli occhi in direzione del mio avversario, e con fare flemmatico inarcai la schiena all’indietro, lasciando fuoriuscire una risata quasi inquietante; dopo aver terminato la scenata, ritornai a fissare il mio nemico e non potei far a meno che spendere qualche parola di raccomandazione in previsione degli attacchi che mi sarei apprestato a compiere: «Bravo zio. Non riesco ancora a metterti in difficoltà. Il divario è troppo ampio perché io continui a giocare. Penso sia giunto il momento di passare a qualcosa di pesante. – giunsi le mani in modo da compiere qualche seal – Prendi questo…» conclusi sussurrando. «Aspetta!» esclamò improvvisamente l’uomo, distraendomi dal portare a compimento il mio colpo: «Se vuoi fare sul serio, allora penso sia giunto il momento di prendere in mano le armi e di iniziare a combattere usando le katane.» Impallidii e balbettando espressi la mia perplessità: «Sei sicuro? Non credi rischieremmo di farci male?» Al sentire quelle parole, l’uomo scoppiò in una grassa risata: «Ma come? Non eri tu quello che aveva proposto di iniziare ad andare sul pesante? Ora invece, che senti che potremmo farci un po’ del male, ti tiri indietro?» paonazzo, accennai la mia approvazione con un movimento del capo, ed entrai in casa a prendere le armi. Tornando all’esterno, fui leggermente abbagliato dalla forte luce del sole e, una volta riacquisita la vista, passai la lunga arma bianca al mio rivale. Egli la prese al volo, e con indicibile armonia sfilò la lama dal fodero; ciò mi lasciò letteralmente a bocca aperta e notato un cenno da parte del nemico, mi affrettai a estrarre la spada. Presi la custodia e la scagliai all’ombra del grande albero che sovrastava la casa. Impugnai l’arma con entrambe le mani e con sguardo deciso, mi fissai sull’avversario. Senza che me lo aspettassi, però, fu proprio lui a cominciare, scattandomi contro brandendo la temibile Katana. Essa rifletteva la luce del sole in maniera limpida e netta; era intarsiata di decori vari e l’elsa composta di stoffe che, intrecciate fra loro, andavano a formare il classico motivo romboidale. Con un morbido movimento ruotò l’intero corpo e portò un violentissimo colpo in direzione della mia spalla. Con celerità alzai la mia arma in modo tale da difendermi da tale offensiva, ma il colpo si rivelò così potente e ben mirato da farmi balzare via di qualche metro, e finii per cadere a terra. Mi ripulii della saliva che mi era uscita e, incredulo, mi rialzai. Senza esitare, l’uomo mi si scagliò nuovamente contro, tentando ancora una volta un fendente discendente; non mi lasciai spiazzare: sicuro, ruotai l’intero busto e, lasciandomi andare in un grido liberatorio, menai un potente colpo contro la spada del mio nemico: le due armi cozzarono sonoramente avvolgendo l’intera zona di scintille e, senza che me ne rendessi conto, mi ero lasciato coinvolgere da quel momento di foga. Approfittando del potente impatto ruotai dalla parte inversa e menai un secondo fendente laterale, che fu parato con semplicità, poi eseguii un terzo colpo mirando leggermente più in basso, ma anch’esso fu bloccato. In quel momento però il mio avversario non si limitò a parare, ma tentò immediatamente di colpirmi con un taglio diagonale. Il colpo lo parai con potenza e decisione e, senza farmi attendere, colpii con un rapido calcio diretto allo sterno del vecchio che, a causa dell’impatto, fu costretto a ritrarsi di un paio di metri.
«Notevole… te la cavi meglio del previsto, Saanbo…» ghignò il vegliardo.
«Che dire? Mi solo allenato bene in questo periodo.» risposi riassumendo una posizione flemmatica.
«Pare proprio… – la voce s’interruppe e non sentii più altro – di si!» concluse il vecchio dopo essersi spostato, affianco a me, con un movimento rapidissimo. «Ma a quanto pare commetti sempre i soliti errori!» con quella frase caricò un fendente al livello del deltoide sinistro e potei far gran poco per difendermi. Istintivamente, alzai la spada e, contraendo tutti i muscoli del corpo, tentai di oppormi a quell’assalto, ma invano, poiché il violento colpo fece titubare pure la mia solida difesa, sbalzandomi sulla destra per parecchi metri. Mi rialzai, ansante, dopo poco, e ridacchiando, mi rivolsi al mio avversario. «Non credi che dovresti insegnarmele tutte quelle tecniche, invece che usarmele contro?» L’uomo, con occhi pieni di pietà per un giovane stolto come me, chinò il capo e, iniziando a ridere tra sé e sé, parlò: «Pensi davvero di essere degno di imparare questo stile di combattimento?» chiese, provocatorio.
«Certo che lo sono!» replicai io, risoluto, abbandonando l’ironia. Egli rimase sorpreso, poi chinò ancor di più la testa e si poggiò a terra, gambe incrociate. Rimasi alcuni attimi a fissarlo, poi raccolsi la mia arma da terra e recuperai il fodero, tenendo sott’occhio l’uomo in riflessione, alla disperata ricerca di qualche segno di approvazione.
Sempre con gli occhi fissi su di lui mi legai la spada alla schiena e sistemai accuratamente l’elsa. Ancora nulla. Rimase fermo e zitto per alcuni minuti, ad occhi chiusi, mantenendo una respirazione regolare e poco frequente; poi finalmente compì i primi movimenti, che ovviamente vennero carpiti dalla mia attenta osservazione, e lentamente si rialzò. Fremevo dalla voglia di sentire la sua sentenza. Serio, con occhio corrucciato, proferì: «Non credo tu sia pronto. Tuo fratello, alla tua età, era molto più abile. Ad ogni modo, non hai i mezzi per imparare. Ti manca Tenseiga.»
«T-t-tenseiga?» chiesi, incuriosito. «Si. Tenseiga. La spada che regalai a tuo fratello – s’incupì – e che gli fu strappata indegnamente da un altro shinobi…» Tra i tanti quesiti che mi penavano in quel momento, uno tra tutti, decisi di risolverlo. «Ma chi è quest’uomo?» domandai, insicuro. «Non lo so nemmeno io. – replicò lui, schietto – Tuo fratello, forse per la vergogna, non volle rivelarmelo. Devi sapere – si toccò il naso – che tuo fratello era un ninja molto talentuoso. Forse uno dei migliori che avessi mai visto. Era riuscito ad ottenere la carica di Chunin pochissimo tempo dopo l’aver conseguito il grado Genin. Era temuto dai nemici e rispettato dagli alleati. In pochi anni sarebbe riuscito ad ottenere pure il grado di Jonin.» i suoi occhi luccicavano in quel momento, come se nella sua mente vagassero immagini e ricordi vecchi come il dolore provato alla scomparsa del giovane nipote. Il rammarico di non esser mai riuscito a tornare in possesso dell’arma lo aveva completamente corroso. Bramava riconquistarla: sapeva che Ichigo avrebbe voluto rientrarne in possesso, perché molto legato a quella spada. A sentire quelle parole mi si generò un vuoto, dal gusto amaro, e non potei far a meno che tornare al passato con i bei momenti passati assieme. Una lacrima, solitaria, mi rigò il viso, ma non stetti a singhiozzare sui tempi ormai andati, piuttosto iniziai a pensare a ciò che quel racconto mi aveva trasmesso. Misi da parte l’apprendimento dell’arte della spada, e decisi che come prima cosa, sarei dovuto ritornare in possesso della spada della mia famiglia.
Il vento proveniente dalla costa si alzò, gonfiando i vestiti della gente e le tende delle case. Le fronde degli alberi oscillavano , lasciando cullare le piccole foglie dal morbido soffio della brezza. I capelli iniziarono ad agitarsi come un fuoco e lentamente la luminosa giornata fu oscurata da tetri e minacciosi nembi, presagio temporalesco.
Ci guardammo a vicenda e rientrammo in casa, silenziosi.
Il pomeriggio passò lento e noioso. La pioggia aveva iniziato a scrosciare da numerose ore, e non accennava a diminuire. Le nubi avevano completamente oscurato il cielo, e della luce del sole non rimanevano che pochi spiragli. Incupito, passai il tempo a guardare dalla finestra della mia umile stanza. Una sobria camera arredata da solo il letto, l’armadio e un comò costituiva il reame delle mie fantasticherie. Tra quei muri avevo sognato e immaginato per anni. Quante volte avevo simulato delle ardue lotte tra ninja un po’ per via del mio io infantile, un po' perché appassionato. Di fronte ai miei occhi, schiere di spietati shinobi che tutti assieme mi si accanivano contro, ed io, abile come solo nei sogni si può essere, li sbaragliavo tutti, uno dopo l’altro. Era così che passavo i cupi dì di Kiri. Nella noia e nell’ozio. Solo nell’ultimo periodo avevo iniziato ad allenare il controllo del chakra per potermi perfezionare. Più esperienza equivale a più abilità, come diceva il mio sensei d’accademia Kiba Inuzuka. “Già…l’accademia.” Cominciai a rimuginare su ciò che avevo vissuto durante l’addestramento nell’isola del villaggio del thè. Oltre ad essermi valso la promozione a genin, il viaggio mi aveva aiutato a fare conoscenza con degli stranieri, dei quali solo uno, Rey Uchiha, aveva attirato la mia attenzione. Era uno spavaldo, non particolarmente abile, né carismatico. Era davvero un brutto ceffo sotto tutti i punti di vista, tuttavia, nonostante mi avesse offeso svariate volte, era riuscito ad ottenere la mia simpatia, o forse dovrei dire, la mia compassione; il divario tra me e lui era stato oggetto delle mie numerose riflessioni durante quelle ore spese in quell’isola dimenticata da tutto e tutti. La questione dell’abilità innata mi tornò alla mente veloce come un lampo. Improvvisamente un bagliore illuminò il cielo e dopo pochi attimi un fragore assordante squarciò l’aria. I vetri tremarono e dal fondo delle scale, la zia sbraitava cose incomprensibili, ma non me ne curai. Con il pensiero tornai alla faccenda della Kekkei Genkai, e giunsi alla conclusione che, nonostante si trattasse di qualcosa di pratico in combattimento, rappresentava soprattutto un segno di appartenenza. Il legame con qualcosa e qualcuno. Un rapporto che cinge due elementi inscindibili. Chi ero? Il solo pensiero del non possedere un’abilità mi faceva tremare le gambe. Come sarei potuto divenire un’abile shinobi senza un’appropriata capacità innata? Avevo paura. Non mi sentivo parte del mondo. Ero un singolo essere umano tra migliaia di capaci ninja. Magari c’era qualcosa di ancora sopito in me, o almeno così speravo, ma nel fondo del mio cuore sapevo di non avere alcun talento nascosto, a differenza di quello spavaldo pulcino del clan Uchiha. Lo invidiavo e, nonostante fossi consapevole della mia superiorità, non riuscivo a darmi pace. Strinsi forte i pugni e picchiai con violenza il pavimento. «Non voglio finire come un qualsiasi altro…» ringhiai. «Non sei ancora pronto.» Trasalii. Di scatto mi voltai e vidi, appoggiato sullo stipite della porta, zio Heishi, che mi guardava con occhi pieni di misericordia e pietà. «Zio!» esclamai, sorpreso. «Saanbo. – varco la linea della porta e a passi lenti e leggeri mi si avvicinò – non sei pronto per sviluppare un’abilità innata. – tentai di interromperlo, ma mi fermò – O per meglio dire. – si sedette su di un angolo del letto – Non puoi svilupparne una. Nella nostra famiglia non ci sono i geni necessari per poter possedere una peculiarità derivante dal sangue dei nostri predecessori.» Gli occhi mi si gonfiarono a sentire quelle parole che, come temevo, confermarono i miei sospetti. Chinai il volto per non mostrare le mie debolezze. «Ad ogni modo, non disperare. Non devi credere che senza una Kekkei Genkai non sarai mai nessuno. L’abilità di un ninja va oltre a quello. Il vero potere dei ninja non sta nel numero di Jutsu posseduti. – alzando la testa si lasciò scappare un sorriso – Me lo disse una volta un amico. La vera abilità di un ninja sta ne- …» un secondo boato, preceduto di qualche secondo dal bagliore dei lampi, scosse l’intero villaggio, e fece tremare nuovamente tutte le finestre della casa, ma nonostante ciò, fui in grado di carpire le parole conclusive, tanto che mi fecero aprire gli occhi sulla natura dell’essere uno shinobi. Forse le aveva dette per tirarmi su di morale, o forse perché, convinto, ci credeva veramente, ma non avrei mai scordato quelle parole. M’inginocchiai di fronte al mio mentore di vita e, singhiozzando, lo fissai dritto negli occhi che, pieni di amore paterno, ruppero il mio silenzioso lacrimare; disperato, cinsi le sue gambe con le mie braccia, e lasciai che le pene e i cattivi pensieri scrosciassero fuori dal mio corpo come la pioggia che, oltre quella finestra, andava purificando i peccati del villaggio.









 
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¬Kob
view post Posted on 30/4/2012, 16:20





Capitolo I: La Lunga Strada Percorsa






Ryosuke Mikawa percorse velocemente i vecchi quartieri abbandonati del villaggio nascosto di Yama, seguendo il fragore delle lame argentee che cozzavano tra loro. Non inciampò mai, né scivolò o perse l’equilibrio, nonostante la velocità sostenuta ed i lunghi vicoli stretti e ostruiti dal ciarpame accumulatosi lentamente negli anni. Cavi metallici e assi di legno di varie dimensioni oscillavano di tanto in tanto sopra la sua testa, tanto da costringerlo in alcuni punti a chinarsi di colpo per evitare di andarci a sbattere. Era un giovane alto e slanciato, con un’ espressione fredda rigata sul viso ed una folta chioma scura che a tratti gli ricadeva sulla fronte, e si muoveva con una grazia ed una sicurezza sorprendenti per i suoi diciotto anni.

Eppure quella mattinata non era stata particolarmente piacevole, o quanto meno non lo erano state le notizie che il giovane Mikawa aveva ricevuto. Era nervoso e adirato, e fremeva dall’indecisione che gli attanagliava la vista. La scelta del consiglio della Nebbia non era stata meno dura solo perché gli era stata comunicata attraverso un giovanotto di appena dodici anni, a distanza di molte leghe da casa. Dopo quasi dieci mesi lontano dal suo villaggio erano arrivate disposizioni di tornare, ordini che, sapeva, sarebbero arrivati da un momento all’altro. Quando era partito non aveva lasciato nemmeno una destinazione nota, questo perché fino a poco tempo prima nemmeno lui era sicuro di dove lo avrebbe portato il suo viaggio, e proprio per questo, forse, si era trattenuto tanto a lungo lontano dalla Nebbia. Era stata un impresa trovare un luogo che potesse fornire le giuste occasioni al giovane di Kiri, per quanto non gli piacesse ammettere, era un tipetto piuttosto esigente, soprattutto quando il punto focale della richiesta coincideva con degli interessi specifici, già preposti e già avvistati all’orizzonte. Proprio per questo motivo non si era fermato un attimo, aveva viaggiato molto, e quasi metà del tempo che aveva passato lontano da quella che ormai, con molta diffidenza, poteva chiamare casa lo aveva trascorso a ridosso di sentieri sempre nuovi. Forse era solo grazie a questa serie di circostanze particolari che era riuscito a trattenersi a distanza dalle mansioni di servizio, non doveva certo essere stato facile ricostruire gli spostamenti del Mikawa, ancor meno raggiungerlo. Di questo, almeno, il ninja si poteva vantare, anche se mai aveva dubitato che prima o poi i segugi di Kiri lo avrebbero trovato. Dopotutto gli Oinin della Nebbia erano molto rinomati per queste cose, anche se non sarebbe stato facile nemmeno per loro ritrovare qualcuno a distanza di mesi, senza nemmeno una labile traccia da cui partire. Eppure Ryo non si era poi dato tanto da fare per nascondere le sue tracce, nonostante preferisse non esser disturbato, non si era preoccupato di nascondere a dovere la sua identità, soprattutto in un paese pacifico, monotono e pettegolo come quello in cui si era stabilito da qualche mese a questa parte.
Da quando era partito, Ryosuke aveva passato la maggior parte del tempo con lo zaino in spalla, senza una fissa dimora e senza un idea precisa di dove andare. Avanzava per strade secondarie, per evitare rogne di alcun genere da parte di malintenzionati o semplici viandanti, anche se ormai si era abituato agli inconvenienti dettati dal caso. Più di una volta gli era capitato di imbattersi in situazioni "pericolose", o almeno lo sarebbero state per un qualsiasi mendicante per il quale si spacciava durante i suoi lunghi viaggi, bardato di una sciarpa che gli avvolgeva il viso e lo celava ad occhi indiscreti, ma mai si era lasciato distrarre dal suo obbiettivo. Aveva iniziato a prendere quelle incursioni come un allenamento inaspettato che, sfortunatamente, non riuscivano a farlo sudare nemmeno un po'.
Aveva così vagato di qua e di la, cambiando spesso direzione, tracciando un percorso che più di una volta lo aveva portato fuori strada. Aveva passato circa un mese nel paese dell'Acqua, visitando i villaggi di Nagi e O'uzu in particolare, per poi dirigersi verso il paese del Mare e raggiungere il paese del Thè dopo appena un paio di settimane, approfittando della cortesia offertagli da un mercante di spezie, poi il paese del Fuoco. Dopo circa due mesi di cammino si era inoltrato nel labirinto di palazzi e strade di Konoha. Quella era solo una tappa di passaggio per lui, anche se mai aveva avuto l'onore di visitare quel villaggio così imponente, aveva deciso di non fermarsi più del tempo necessario. Aveva preso una camera ad ore, fatto qualche giro della periferia della Foglia, e dopo una notte di riposo si era rimesso in viaggio nuovamente. Paradossalmente si era trattenuto più tempo presso alcuni degli altri villaggi ninja che aveva incontrato sulla sua strada piuttosto che sulla capitale del mondo degli shinobi, la famigerata dimora dell’Hokage. Aveva deciso di evitare le grandi città, non tanto per non farsi notare, quanto più perché sapeva bene che non avrebbe trovato nulla di ciò che stava cercando. Nonostante si fosse allontanato dalla sua città natale per continuare ad allenarsi, sapeva bene di non poter contare sull'attenzione e sulle cure dei Ninja della Foglia, troppo impegnati e distanti da poter perdere tempo ad insegnare ad un emissario di Kiri.
Dopo una settimana di cammino aveva già attraversato gran parte del paese della Cascata e si era diretto verso il paese del Vento, fermandosi poco più di qualche giorno presso il paese della Pioggia, approfittando dell'ospitalità di vecchi conoscenti incontrati durante una missione conclusasi appena un anno prima. Gli ultimi due mesi prima di arrivare a destinazione li aveva invece trascorsi tra le lande della regione del Vento e quella della Roccia, visitando il più possibile i centri nevralgici di vita di quei territori abbandonati dalla dolcezza di madre natura. Nonostante aveva preferito evitare i grandi centri ninja, le cinque grandi capitali dei paesi che più tenevano in mano le sorti militari del mondo in particolare, per Suna aveva fatto un eccezione, era rimasto particolarmente affascinato dai suoi cittadini e dalle loro culture belliche e non si era sprecato nell’approfondire i suoi interessi. Era stato proprio allora che il Mikawa si era interessato per la prima volta alle nature del chakra, affascinato dall'uso dell'arte del vento e della terra, padroni di quei paesi abbandonati alle dure attenzioni che il mondo gli riservava sotto il sole cocente mantenutosi nonostante l'inoltrato inverno.
Erano passati ormai diversi mesi da quando il giovane Chuunin di Kiri aveva lasciato il villaggio, ed anche se la maggior parte del tempo lo aveva passato a viaggiare, mai si era dimenticato il vero motivo della sua partenza. Non si era lasciato andare dal punto di vista fisico e tecnico, aveva continuato i suoi allenamenti intensificando i ritmi e portando il suo corpo allo sfinimento, aveva iniziato ad utilizzare pesi per incrementare velocità e forza, e grazie alla tecnica della moltiplicazione del corpo più volte si era dedicato a perfezionare le doti combattive, finendo per sviluppare uno stile di lotta tutto suo. Da sempre aveva saputo che il suo corpo era la sua migliore arma, più dei ninjutsu e genjutsu su cui la maggior parte degli shinobi basavano i propri incontri, e proprio per questo motivo stava rendendo il proprio corpo una macchina combattiva, sfruttando al massimo ogni sua potenzialità. In particolar modo la velocità era sempre stata la sua arma più potente, e nei numerosi incontri che aveva fatto durante il suo cammino ne aveva dato prova diverse volte. Aveva attraversato quasi tutte le regioni del globo, e le tappe principali del suo viaggio erano state senza ombra di dubbio i centri ninja che caratterizzavano quei luoghi esotici su cui pascolava, e più volte si era soffermato a combattere presso le loro arene, con dei “rappresentanti” validi con cui poter dare il meglio di se stesso. Si poteva quasi dire che in quei pochi mesi avesse fatto molta più esperienza di quante ne aveva fatta prima di lasciare il villaggio, e soprattutto nei combattimenti non si era risparmiato. Non sempre vinceva, nel giro di quattro mesi aveva subito numerose sconfitte, proprio come aveva ottenuto molte vittorie, ma mai si era arreso. Il più delle volte che perdeva un incontro si soffermava al villaggio, si dava il tempo per riprendere le forze e riaffrontare i suoi avversari con più calma, una seconda chance in combattimento, e grazie a questo aveva formato il suo corpo ed il suo carattere tenace e deciso. Proprio in questi combattimenti si era guadagnato il nome di “Lampo Nero”, per via delle elevate velocità cui raggiungeva e della folta chioma scompigliata che gli ricadeva sul viso, ed assieme al suo nome si erano diffuse storie mitiche di combattimenti e vittorie, che sembravano aver donato un che di mistero a quel forestiero, ora più interessante che mai.
Non aveva, inizialmente, apprezzato questo diffondersi di notizie, aveva sempre preferito l’anonimato, ma non aveva potuto fare altro che abituarsi a quel soprannome che in fondo lo divertiva. Ora che ci rifletteva nuovamente iniziava a credere che fosse anche grazie a quel nuovo epiteto che i ninja di Kiri lo avevano trovato e raggiunto nonostante la località sconosciuta in cui si trovava. Per qualche tempo, durante i suoi viaggi, era stato persino seguito da un ragazzino del villaggio del Vortice, un tipetto di non più di quindi anni, che lo aveva incontrato poco dopo aver attraversato la regione del Fuoco e non lo aveva lasciato fino a quando non aveva potuto seguire il Mikawa nelle sue imprese. Non doveva essere più alto del metro e settanta, ed il suo viso fanciullesco e leggermente rotondo lo accompagnavano ormai ovunque, coronati da una capigliatura riccia e folta che sembrava esser composta da numerosi filamenti d’oro, dello stesso color vivido degli occhi, particolarmente insidiosi ed allo stesso tempo apparentemente timidi. In effetti non si era nemmeno presentato a lui, lo aveva tampinato i primi giorni, dentro e fuori i villaggi che frequentava, e solo dopo aver visto un paio di incontri si era deciso a parlargli. Inizialmente si era limitato ad osservare il comportamento del Kiriano, facendo qualche domanda ogni tanto, mantenendo una certa distanza dal “Lampo Nero”, ma dopo poco si era rivelato un gran chiacchierone. Approfittava di ogni occasione per raccontare la storia di qualcuno, e dopo un paio di settimane che seguiva Ryo aveva iniziato a decantare persino le sue gesta ai viandanti che incontrava. Il Chuunin si era ormai rassegnato all’idea che quel giovane avesse raccontato all’intero globo ninja quello che aveva visto al suo seguito, nonostante gli avesse frequentemente detto di tacere i racconti delle sue avventure.

[...]



La pioggia ticchettava incessantemente dietro la superficie sottile del vetro delle finestre della locanda, accompagnata dal frequente rombo dei tuoni che interrompeva il silenzio all’interno di quella piccola locanda presso i confini del paese della Roccia. Non aveva smesso di piovere un attimo da tre giorni, e da quando il giovane Mikawa vi si era rintanato, appena ventiquattro ore prima, sembrava che il tempo fosse persino peggiorato. Il numero di lampi e tuoni era aumentato, ed il sole, spesso caldo e cocente di quei luoghi, non si era nemmeno intravisto, nascosto dalla spessa coltre di nuvole nere nel cielo. I pochi ospiti di quella che, a occhio e croce, doveva essere poco più di una casetta di montagna, si erano rintanati nelle loro stanze a dormire o a meditare in silenzio, ed i pochi viaggiatori che ancora si trattenevano producevano un brusio continuo e fastidioso mentre discutevano dei loro affari. In circostanze particolari il giovane Mikawa si sarebbe limitato a farsi i fatti propri, eppure era da tempo che non aveva nulla da fare, e quelle condizioni meteorologiche particolarmente avverse lo costringevano a rimanere al chiuso almeno per il momento. Così, senza farci troppo caso, aveva teso le orecchie per sentire di cosa stavano parlando quei quattro mendicanti, apparentemente clienti frequenti di quel “Yamanohoteru” dal comportamento cordiale e amichevole che avevano avuto con i gestori del posto. Aveva sperato di potersi distrarre, di far passare un poco più velocemente il tempo necessario affinché riprendesse il suo sentiero, ma per quanto si sforzasse di interessarsi ai discorsi altrui non riusciva a trovare un argomento che lo coinvolgesse per davvero. In altre circostanze si sarebbe rimesso in moto nonostante il tempaccio, le cattive condizioni atmosferiche non lo avevano mai fermato, e vivendo in un villaggio come Kiri era piuttosto indifferente alla pioggia o al freddo nativo del luogo, numerose volte aveva approfittato delle avversità come un allenamento, ma questa volta, seduto su una piccola seggiola di legno e vimini di quella locanda, si rendeva conto che non si sarebbe mosso almeno per un po’. Durante gli ultimi incontri svolti aveva riportato una grave ferita all’addome, che pur essendo stata curata lo aveva costretto al riposo, necessario per poter riprendere il prima possibile gli allenamenti, eppure non si era poi limitato quanto avrebbe dovuto. Il giovane Ryosuke aveva ripreso il cammino appena poche ore dopo essere stato dimesso dal campo medico in cui era stato ricucito, e senza curarsi di niente si era diretto verso la meta successiva, come se nulla fosse successo. Solo un paio di giorni dopo aveva realmente compreso la situazione. La ferita gli si era riaperta durante la marcia, pochi chilometri dopo aver superato il villaggio di Rokku, inzuppando di sangue le bende che ancora portava stretta fin sotto la bocca dello stomaco, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore che lo aveva costretto ad accovacciarsi a terra, con le mani strette sul ventre e le ginocchia a ridosso del pavimento bagnato e fangoso. Si era accampato per un paio d’ore sul margine della strada, riparato dal freddo vento presso un insenatura del sentiero, e prima di poter far qualsiasi aveva attivato la sua kekkai genkai, arrestando l’emorragia e coprendo lo squarcio con uno spesso rivestimento di sangue che solitamente utilizzava in combattimento, come difesa dagli attacchi minori. Aveva sviluppato quella tecnica appena pochi mesi addietro, addirittura prima di lasciare il villaggio, ma solo poche volte aveva avuto modo di usarla con efficacia. Spesso si limitava dall’utilizzare tutte le sue armi durante i combattimenti, e proprio per questo motivo non aveva mai utilizzato la sua Specialità Innata durante quei mesi di combattimenti al di fuori del suo villaggio. Non amava particolarmente il suo dono. Aveva ripreso il cammino sotto la pioggia dopo appena qualche ora di riposo, il tempo necessario per far richiudere la ferita, e si era rifugiato il prima possibile nella locanda più vicina, attendendo le condizioni migliori per ripartire.
Quando aveva ripreso il cammino, appena qualche giorno dopo, si era trovato subito a suo agio, su nuovi sentieri. Nonostante le ferite non fossero più così gravi, la permanenza del Chuunin nei pressi di quella locanda era stata peggiore di quel che pensava. La noia aveva attanagliato la sua coscienza, ed il più delle volte non faceva altro che guardare il soffitto, senza pensare a nulla in particolare. Quando poteva si limitava ad ascoltare i discorsi dei passanti, altrimenti rimaneva chiuso nella propria stanzetta, o seduto in un angolo della sala da ristoro di quel locale spartano. Solo il giorno prima di partire qualcosa era riuscito ad attirare l’attenzione dello shinobi, abbastanza da far cambiare i piani del giovane Kiriano. Al posto di continuare il suo cammino verso Nord-Ovest aveva ripreso un sentiero che pochi giorni prima lo aveva portato dal villaggio di Rokku a quella locanda, e dopo appena poche leghe percorse aveva tagliato per la grande foresta di Shinda Ki, raggiungendo i piedi del monte Kinshuku nel giro di un giorno di cammino. Ryo non sapeva bene che cosa avrebbe trovato, non aveva ricevuto alcuna informazione certa, aveva semplicemente sentito delle storie. Una montagna quasi impossibile da scalare, sulle cui pendici vivevano appena diverse centinaia di persone, isolate dal mondo circostante. Un piccolo villaggio pacifico, privo di contatti con l’esterno. Di per se non gli sarebbe interessato affatto una storia del genere, non aveva niente che potesse interessare ad uno Shinobi, ma per uno come lui non era altro che una sfida, un’ altra. Era uno dei monti più importanti del territorio, anche se non rappresentava, apparentemente, una sfida così ardua. Non era né il monte più roccioso, né quello più alto, e ad occhio e croce non doveva rappresentare un reale pericolo. Il Mikawa pensava che non gli ci sarebbe voluto molto per scalare almeno una buona parte della montagna, all’apparenza priva di grandi ostacoli, mentre il resto, lo avrebbe visto solo durante il percorso, nascosto dalle fitte nuvole candide che circondavano la vetta del Kinshuku. Il Chuunin raccolse così le sue cose, lo zaino in spalla ed il mantello che gli ricadeva sopra i pochi bagagli che aveva legato sulla schiena, e concentrando una discreta, ma sufficiente, quantità di chakra sulle piante dei piedi balzò sopra la superficie pendente della montagna. Non ebbe molti problemi a percorrere i primi metri in salita, nonostante dovesse portarsi appresso numerose zavorre era piuttosto abituato a quel peso, anche se di tanto in tanto doveva fermarsi ed assestare bene i piedi sul terreno, a tratti poco stabile per reggere il suo peso. La gravita, al momento, era l’unico ostacolo che gli si presentava davanti. L’unica lotta che doveva vincere, lo spingeva costantemente giù, affaticando ulteriormente la marcia del Ninja della Nebbia. Dopo appena un quarto d’ora si accorse di qualcosa di strano. Non sapeva bene dire che cosa, la sua camminata non era stata interrotta ed il peso sulle spalle del Mikawa non pareva averlo allertato nonostante incominciasse a segnargli le cinghie degli zaini sulle spalle. Era una sensazione particolare, la avvertiva con il corpo, nelle ossa e nei muscoli, ma non riusciva a stabilire che cos’era. Aveva già provato qualcosa del genere, era una sensazione familiare, quasi inavvertibile, ma solo l’istinto lo aveva portato a fermarsi e a ragionare su quel che stava accadendo. Non riusciva bene ad inquadrare la situazione, un po’ distratta dal vento che gli correva sulle spalle ed un po’ spossato per il viaggio compiuto fino a quel momento. Solitamente non lo avrebbe sentito gravare in quel modo. Gli pareva di perdere le forze. Sentiva scemare il suo chakra, quasi come se tutti i suoi sforzi per rimanere in bilico fossero vani. Quasi distrattamente si accorse solo all’ultimo del pericolo che stava correndo, l’appiglio dei piedi si staccò dalla superficie verticale del Kinshuku, slittò di qualche metro, tentando di portarsi in posizione per aggrapparsi alla montagna, fino a quando non si staccò completamente, rimanendo sospeso a mezz’aria. Sarebbe stata una caduta rovinosa, nonostante avesse iniziato quel percorso appena una quindici minuti prima, aveva percorso abbastanza strada da ritrovarsi spiaccicato contro il terreno, in una pozza di sangue. Il suo Sangue, quel prezioso dono con cui era nato e che già diverse volte gli aveva salvato la vita. Estrasse velocemente le braccia dalle cinghie dello zaino, troppo pesante ed ingombrante per permettergli di trovare un buon appiglio su quel muro avverso, e con un movimento fluido e veloce infilò la mano destra nella sacca porta oggetti alla vita, estraendo la prima arma bianca a portata di mano. Data l’urgenza della situazione non riuscì ad agguantare nient’altro che un semplice Shuriken, lasciando distrattamente cadere le sue ultime scorte di armi verso il vuoto, e con un colpo deciso si recise la pelle dell’avambraccio sinistro, tracciando una linea semplice e profonda, lasciando fuoriuscire il proprio sangue dall’arto ferito. Prima ancora che potesse fare qualsiasi cosa, quasi d’istinto, il suo sangue si mosse verso la superficie della montagna, intrecciandosi in un insieme di filamenti così sottili da parere quasi invisibili, ma tanti da intessere una corda dello stesso spessore di una fune di canapa, che Ryosuke agguantò prontamente, lasciando muovere l’altra cima fino a raggiungere una piccola sporgenza adatta alla situazione. Riuscì ad arrestare la caduta in fretta, non doveva aver perso più di una decina di secondi ad eseguire tutta l’azione, eppure non era stato abbastanza cauto da prendere le giuste precauzioni. Il contraccolpo che subì durante l’arresto della caduta era gravato solo unicamente sulla spalla sinistra, strappando i muscoli del deltoide e lussando l’articolazione del ninja, che si lasciò sfuggire un urlò di dolore al vento. Stette pochi attimi appeso per quel braccio. Nonostante si fosse appena danneggiato l’arto non si poteva permettere di perdere la presa, ed anche la corda con cui si reggeva non pareva essere sufficiente a tenerlo a lungo. Nonostante avesse ricorso alla sua Kekkai Genkai, il Mikawa non era mai stato così abile da avere una manipolazione del sangue eccellente, ed iniziava a sentire cedere la fune sotto il suo peso. Con un ultimo sforzo lasciò fuoriuscire un’ultima porzione di sangue dalla ferita sul braccio leso, muovendola in direzione dell’appiglio su cui si era fermato, costruendovi attorno una piccola serie di ganci in grado di sostenere, almeno per un altro po’, il suo peso. Poi fermò l’emorragia. Una volta raggiunto il primo spiazzo abbastanza grande da poterci stare comodamente, abbastanza vicino a dove il Mikawa aveva fatto appiglio, il Chuunin di Kiri si distese, richiamando a sé il sangue utilizzato per salvarsi la vita, facendolo rientrare con molta calma da dove era uscito, mantenendone una piccola parte all’esterno, in maniera tale da coprire la ferita almeno fino a quando non si sarebbe rimarginata. Non gli ci sarebbe voluto molto tempo per riprendersi da quel taglio sull’avambraccio sinistro, ma quello che più lo preoccupava era la spalla, ormai inutilizzabile. Nonostante avesse sempre e solo fatto affidamento su se stesso per le proprie cure, non gli era ancora mai capitato di trovarsi in una situazione del genere, e non sapeva comportarsi con quel tipo di ferita, che gli rendeva difficile anche i movimenti più basilari. Così, stringendo i denti attorno al manico di un Kunai per evitare di urlare, portò una spallata con la parte sinistra del corpo verso il Kinshuku, riallineando almeno sommariamente l’arto fuori posto. Nonostante non lo potesse più utilizzare fino alla visita di un medico, almeno poteva proseguire il suo cammino senza che gli creasse impiccio o altro. In un attimo contrasse velocemente la mascella, con il giogo ancora tra le arcate dei denti, e lasciò infine cadere l’arma, in preda al dolore che stava provando, accasciandosi nuovamente a terra. A quel punto, sia la salita che la discesa sarebbero state pericolose per il Mikawa, tanto valeva raggiungere il suo obbiettivo, scalare quella montagna, e poi si sarebbe preoccupato della sua spalla. Non era una ferita da poco, ma non credeva affatto che potesse procurargli dei danni permanenti, e di sicuro non si sarebbe arreso per una cosa del genere. Così, tenendo il braccio disteso accanto al corpo, si infilò i guanti con sopra la lamina di protezione, quella con sopra il simbolo degli shinobi di Kiri, ed iniziò a scalare nuovamente. Questa seconda volta la scalata sarebbe stata diversa, nonostante avesse perso quota durante la caduta, aveva constatato che il chakra adesivo con cui prima aveva scalato quel tratto di montagna non lo avrebbe più aiutato, e a quel punto non rimanevano che le sole doti fisiche del ninja. Un allenamento ancora più intenso, ma senza dubbio più proficuo. Nonostante ciò aveva lasciato gli ultimi effetti personali presso quello spiazzo a circa cinquecento metri d’altezza dal suolo, lo zaino lo aveva perso durante la caduta, se lo era sfilato di dosso per addolcire la presa alla montagna, e con quello aveva perso tutti gli oggetti più importanti. A quel punto, data l’ardua scalata che avrebbe dovuto compiere, aveva deciso di ridurre al minimo gli effetti da portarsi dietro, per non avere troppi problemi. Non aveva lasciato nulla che potesse servirgli, tutto l’armamentario e l’equipaggiamento ninja lo aveva, come sempre, legato alla vita, eccezion fatta per l’unica arma che mai aveva posseduto davvero: Tenseiga, legata sulla schiena. All’interno di quelle borse e borsette non aveva lasciato che qualche pergamena, qualche calamaio con le penne e qualche mappa, un diario su cui aveva segnato tutti i suoi spostamenti ed un mantello , ormai inutile e semplicemente ingombrante.
Avanzava su quella parete di roccia a rilento rispetto alla marcia che prima aveva intrapreso, non potendo nemmeno fare uso del suo braccio sinistro, si limitava ad avanzare con una mano sola, aggrappandosi ad un appiglio di roccia, per poi prendere posizione con i piedi e tirarsi in sù, riprendendo ciclicamente la posizione iniziale. All’inizio quel modo era l’unico che potesse aiutarlo, stare rasente alla parete ed avanzare con cautela, era una metodo lento, faticoso, e proprio per questo il giovane Mikawa sentiva tutti i muscoli del suo corpo fremere, sotto lo sforzo della scalata. Prese confidenza con quei movimenti diverso tempo dopo, ad occhio e croce aveva percorso altri trecento o quattrocento metri, ma il tempo era decisamente aumentato. Mentre prima aveva fatto in appena un quarto d’ora quel tragitto, ci aveva messo poco più di un ora per continuare. Non si era permesso nemmeno una pausa, nonostante iniziasse a sentire il peso della stanchezza, era deciso a continuare fin dove poteva, ed inoltre era molto raro trovare degli spiazzi abbastanza grandi per sistemarsi in sicurezza, ne aveva trovati appena uno o due da quando era ripartito, ma aveva rinunciato all’idea di fermarsi dopo aver percorso così poco spazio. Alla terza ora di scalata si appisolò, per appena qualche minuto, ancora appeso in bilico alla grande roccia, rischiando per poco di cadere giù, a dirotto nel vuoto, nuovamente. Era terribilmente stanco, sia fisicamente che mentalmente, il proprio corpo era stato sottoposto più volte ad allenamenti duraturi come quello, ma dovendo utilizzare solo un braccio, ed avendo scarsa mobilità, tutto il peso gravava sugli altri arti disponibili, stancando il ninja molto prima del solito, ed inoltre era sicuro che, proprio come era successo in precedenza, il suo chakra venisse alterato e disturbato dalla natura di quel Kinshuku, tanto che più volte credette di trovarsi sotto l’effetto di un’arte illusoria. Nonostante avesse smesso di usare il chakra adesivo per muoversi al di sopra di quella montagna, aveva continuato a concentrarlo nella mano rimasta, tentando di avere una presa più salda e forte, ed anche nelle gambe non aveva smesso di irrorarne i tessuti, per ottenere maggior libertà di movimento e velocità. Tutto quel d’affare per un tempo così prolungato lo aveva stremato. Ryosuke non avrebbe retto per molto. Dopo circa una mezza giornata sopra il monte Kinshuku, lo shinobi aveva lasciato molti metri sotto di lui, nonostante andasse a rilento, ormai non vedeva più il terreno, alla base della grande roccia, era rimasta una grossa macchia sfocata di color marrone e verde scuro, ma niente si poteva distinguere da quell’altezza. Eppure il Kiriano guardava raramente verso il basso, era più che altro concentrato su quel che aveva davanti, o per meglio dire sopra, e proprio grazie a questo era riuscito ad individuare, seppur in maniera molto approssimativa, quella che poteva essere una buona postazione per fermarsi. Ad appena un centinaio di metri sopra la testa pareva ci fosse uno spazio abbastanza grande su cui fermarsi, interrompeva quel muro di roccia, lasciando un dislivello con la continuazione per la cima di almeno una decina di metri. Nonostante non riuscisse a vederlo per bene, era sicuro che si sarebbe potuto fermarcisi sopra almeno qualche ora, il tempo di recuperare le forze perdute per la lunga scalata e chiudere gli occhi e dormire. Ormai era allo stremo delle forze, e se quel che aveva visto non fosse stato sufficiente a permettergli un attimo restauratore, probabilmente non sarebbe riuscito a raggiungere in tempo il successivo, era al limite delle proprie forze, e gli pareva difficile riuscire ad arrivare persino fino a quel punto. Di norma avrebbe utilizzato qualche tonico, o ne avrebbe approfittato per mangiare qualcosa, una barretta di cioccolato o un qualcosa di energetico, ma tutto quel che lo avrebbe potuto salvare da quella situazione era caduto, insieme allo zaino, nel vuoto. Di tutto quello che avrebbe potuto perdere, in quel momento, il cibo era la cosa più importante. Da qualche tempo oltre alla stanchezza e alla fatica si era aggiunta anche la fame, ed il Mikawa si era maledetto per non aver mangiato prima di intraprendere quella scalata, sperando di poter avere altre occasioni. Eppure ora non poteva far altro se non continuare a salire, nonostante gli pareva impossibile riuscire a raggiungere quel villaggio di cui aveva sentito parlare, sempre che esistesse alcun villaggio. Nonostante le voci iniziali che aveva sentito, quelle che parlavano dell’impossibilità di scalare quella montagna, il Kiriano non aveva avuto ancora prova che le voci che aveva sentito nei giorni precedenti fossero veritiere, ed iniziava a dubitare del lavoro svolto fino a quel momento, facendosi prendere dallo sconforto oltre che dalla debolezza fisica. Almeno poteva dire di averci provato, affrontare un titano della natura del genere, aveva scalato seppur solo parzialmente, quella montagna impossibile da valicare: il monte Kinshuku.
Da cento metri di distanza, nel giro di breve tempo divennero cinquanta, poi si ridussero a venti e poi nuovamente a dieci. Ryosuke continuava a scalare voracemente, si lasciava dietro un metro ogni volta, iniziando ad aiutarsi anche con il mento, per ottenere un appiglio maggiore. Metteva una mano avanti, poi la gamba destra, la sinistra e poi di nuovo su con la mano, issandosi sulle proprie ginocchia. Continuava, non si era fermato per riposare da quando aveva avvistato quella piazzole, da quando le speranze lo avevano dominato nuovamente, e, forse, non aveva avuto un’idea geniale. Le poche forze che gli erano rimaste lo stavano a poco a poco abbandonando, le sue riserve si stavano prosciugando, e ad appena pochi metri dalla meta iniziò a sentire le palpebre pesanti, sempre di più, sopra gli occhi, che si chiudevano e si riaprivano serratamente. Ogni volta che li chiudeva, passava un attimo di più prima che li potesse riaprire. Si stava addormentando, e lo stava facendo pure in fretta. Non riusciva a capire come mai, ogni minuto che passava, ogni metro che faceva, la stanchezza lo attanagliava, e se lo voleva portare giù, a picco nel vuoto.
Quando il braccio destro si ritrovò a toccare quel piano a centinaia di metri d’altezza, accarezzando un manto delicato d’erba verde, per un attimo al giovane Ryo gli pareva di aver raggiunto la sua meta, le speranze di cui si era nutrito lo fecero sobbalzare, ed in un attimo raggiunse anche con il resto del corpo la superficie erbosa. In un attimo era balzato sopra all’orlo di quella piattaforma sospesa così in alto, aveva raccolto le ultime forze par balzarci sopra, ed una volta toccato terra con i piedi, credeva di potersi finalmente stendere e riposare. Eppure era stata una mossa stupida, probabilmente in altre circostanze non lo avrebbe fatto, si sarebbe comportato con cautela come aveva fatto fino a quel momento, ma la stanchezza gli aveva giocato un brutto tiro. La superficie di roccia sotto alle suole dei suoi sandali del color della notte oscura cedette al solo tocco del ninja, sgretolandosi in numerosi frammenti di diverse dimensioni, diretti inesorabilmente verso il vuoto, attratti dalla grande forza di madre natura, e come loro, anche Ryosuke Mikawa.
Così, sospeso nel vuoto e stanco fino alla morte, non avrebbe potuto fare nulla. La sua mente non riusciva a mettere a fuoco quel che stava accadendo, non riusciva ad analizzare i fatti, ed il corpo del ninja non avrebbe risposto comunque ad alcuno stimolo, ormai troppo affaticato dalla lunga scalata da poter impedire una sorte così atroce e crudele, inevitabile. In quegli ultimi attimi non sapeva neppure a cosa pensare, magari avrebbe dovuto dire a dire a qualcuno, salutare un amico, rivelare un ultimo segreto o chiedere perdono, ma non riusciva ad inquadrare la sua vita. Sospeso nel Vuoto. Non aveva nessuno a cui dire addio, perché non si era mai legato a qualcuno tanto da sentirne la mancanza, non avrebbe dovuto salutare alcun amico, perché la sua sorte lo aveva costretto alla solitudine, e nessun segreto avrebbe potuto liberare, perché la sua vita era la vita di un ninja, e lui era particolarmente bravo nell’essere tale, non si sarebbe lasciato sfuggire niente. Eppure era solo, cadeva in un limbo oscuro accompagnato solo dalle ombre delle sue avventura, nessuno lo avrebbe seguito, nessuno lo avrebbe cercato. Sospeso nel vuoto. In un attimo tutto quello che mai gli era mancato, tutto quello di cui mai aveva sentito la necessità, ciò che magari aveva sempre allontanato dalla sua vita, erano diventati i suoi rimpianti, ed era troppo tardi anche per quello. Non aveva niente a cui aggrapparsi, non aveva un motivo per vivere, e non gli sarebbe mancata un esistenza così, probabilmente, eppure si era immaginato diversamente la sua fine. Credeva che sarebbe morto in battaglia, contro un degno avversario, magari durante una guerra, anche se aveva sempre cercato di evitare che ne scoppiasse una. Oppure sarebbe successo durante una missione, sacrificandosi per un compagno più debole, qualcuno a cui lasciare il proprio compito. L’angelo della morte lo avrebbe preso, lo sapeva, sapeva anche che era troppo permettersi il lusso di una morte naturale, di vecchiaia, ma sperava che il momento fatidico lo cogliesse preparato, in un momento preciso, degno del nome di uno Shinobi. Lui, invece, si sarebbe spiaccicato contro il terreno ai piedi del monte Kinshuku, probabilmente irriconoscibile data la caduta, e nessuno avrebbe potuto immaginare chi lui fosse, nemmeno il coprifronte legato solitamente al braccio lo avrebbe distinto, lasciato involontariamente in una delle borse disperse. Sarebbe stato un cadavere qualunque, senza nome e senza scopo. Ma al momento rimaneva così, sospeso nel Vuoto.
Ryosuke chiuse delicatamente le palpebre, sotto il peso della stanchezza e dell’inevitabilità del fato, e prima di svenire a mezz’aria allargò leggermente un sorriso ai lati della bocca…

 
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